tag:blogger.com,1999:blog-299413052024-03-14T05:24:45.455+01:00I miei articoliDa ormai un po' di anni mi diverto a fare il giornalista nel tempo libero... e spesso trovo anche chi ha il coraggio di pubblicarmi :-)
In questo blog inserirò pian piano tutti gli articoli scritti fino ad ora, pubblicati o no, sperando possano interessare anche a tutti voi (commenti critici sono non solo benvenuti, ma anche desiderati).Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.comBlogger24125tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1169457703305441932007-01-22T10:21:00.000+01:002007-01-22T10:21:48.286+01:00SilenzioCome avrete sicuramente notato è quasi un mese che non scrivo più niente qui sopra.<br /><br />Il blog non è morto, non temete, però ho dei problemi personali e la testa da tutt'altra parte.<br />Ma spero di tornare a voi presto.<br /><br />Ciao,<br /><br />Mauro.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1167303023935405222006-12-28T11:50:00.000+01:002006-12-28T11:50:25.473+01:00VacanzePer vostra gioia - o dolore? :-) - non sono sparito: sono solo rientrato in patria per godermi qualche giorno di vacanza.<br /><br />Ci risentiamo - anzi rileggiamo - il 5 gennaio.<br /><br />Auguri a tutti,<br /><br />Mauro.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1165398027083804092006-12-06T10:28:00.000+01:002007-02-01T09:48:35.180+01:00Intervista al Sindaco di Genova Giuseppe PericuDopo lungo silenzio, dovuto a ragioni personali, rieccomi qui, a scrivere per voi :-)<br /><br />Nel 2004 Genova, la mia amatissima Genova, fu capitale europea della cultura. Io riuscii a ottenere un'intervista via mail col Sindaco di Genova (<a href="http://www.comune.genova.it/portal/page/categoryItem?contentId=79391">Giuseppe Pericu</a>) per parlare del tema. L'intervista venne allora pubblicata in versione integrale sul <a href="http://www.webgiornale.de/">Webgiornale</a> e in versione ridotta su <a href="http://rinascita.de/rinascita_flash/rinascita_flash.html">Rinascita Flash</a>.<br /><br />Dato che quest'anno per Genova c'è stato un altro evento di notevole importanza culturale, cioè il riconoscimento da parte dell'<a href="http://portal.unesco.org/en/ev.php-URL_ID=29008&URL_DO=DO_TOPIC&URL_SECTION=201.html">UNESCO</a> di parte della città vecchia come patrimonio dell'umanità, penso non sia male ripresentarla, in quanto alcune risposte potrebbero tornare d'attualità.<br /><br />Buona lettura,<br /><br />Mauro.<br /><br />---<br /><br /><span style="font-weight:bold;">INTERVISTA AL SINDACO DI GENOVA GIUSEPPE PERICU</span> <br /><br /><span style="font-style:italic;">1)Quando ha avuto origine la candidatura di genova a Capitale Europea della Cultura? Quali stimoli e pensieri hanno portato alla decisione di candidarsi e perché proprio il 2004?</span><br /><br />L'idea di candidare Genova a Capitale Europea della Cultura, è appannaggio della giunta che mi ha preceduto. Gli stimoli e i pensieri che hanno portato alla decisione di candidarsi sono stati da noi totalmente condivisi e si basano soprattutto sulla consapevolezza delle potenzialità di Genova e sulla necessità che la sua immagine rinnovata di città dalle varie vocazioni, dall'industria alla portualità, al turismo, alla cultura, possa e debba avere un rilancio in ambito internazionale. L'impegno affinché questo progetto si realizzasse è stato da noi caparbiamente perseguito e siamo orgogliosi che la decisione dell'Unione Europea ci abbia premiato. <br /><br /><span style="font-style:italic;">2)Quale filo conduttore si dipana attraverso le varie iniziative e manifestazioni, oltre al legame tra Genova e il Mediterraneo, il suo mare? Vi sono altri denominatori comuni tra le varie iniziative?</span><br /><br />Il mare è certamente un leit-motiv su cui ruotano le varie iniziative e manifestazioni, in quanto legato al tema principale, che è il viaggio, inteso sia in senso proprio, sia in senso metaforico, essendo Genova città di mare per eccellenza e da sempre luogo di arrivi e partenze. Dal motivo conduttore del viaggio si diramano poi tre percorsi tematici che s'intersecano: Genova città d'arte, Genova città delle conoscenze, Genova città contemporanea. <br /><br /><span style="font-style:italic;">3)Come si legano le iniziative di Genova 2004 a ciò che Genova offre "stabilmente", cioè ai suoi musei, ai suoi teatri, alla sua bellezza e, perché no, anche alla sua economia?</span><br /><br />Innanzi tutto con la decisione di impegnare la gran parte delle risorse economiche di cui abbiamo potuto disporre in quanto capitale europea, non in un evento unico destinato ad esaurirsi nell'arco di un anno, ma nella valorizzazione del nostro patrimonio architettonico, storico e artistico. Abbiamo recuperato il nostro sistema museale complessivo, con interventi volti a ristrutturare i meravigliosi palazzi, le ville e gli edifici che sono sedi espositive permanenti. Abbiamo scelto di migliorare l'assetto urbano nel suo complesso, restituendo all'antica bellezza strade e piazze che avevano perduto col tempo molto del loro fascino. Insomma abbiamo cercato di "approfittare" di questa opportunità per rendere la città ancora più bella, vivibile ed attrattiva, nella certezza che i benefici dell'evento 2004 si riverbereranno anche sulla nostra economia futura. <br /><br /><span style="font-style:italic;">4)Vedendo il calendario delle manifestazioni uno vorrebbe avere il tempo di fermarsi a Genova tutto l'anno per seguire tutto. La maggioranza dei turisti non avranno purtroppo questa possibilità. Fatto salvo il principio secondo cui al primo posto vengono gli interessi e i gusti personali, in quale periodo secondo Lei i turisti potranno scoprire e godere al meglio Genova?</span><br /><br />Forse il periodo migliore comincia e coincide con l'inizio della primavera. Tra pochi giorni verrà inaugurata la grande mostra sull'età di Rubens, una delle manifestazioni "clou" del nostro calendario, dedicata agli appassionati dell'arte del Seicento. Sarà un' occasione irripetibile per ammirare le splendide collezioni che arricchivano le dimore dei patrizi genovesi dell'epoca, che erano mecenati, committenti apprezzati e grandi collezionisti d'arte. In aprile ci sarà la mostra del "saper fare", dedicata agli antichi mestieri e alle nuove tecnologie, e poi via via la mostra dedicata a Marc Chagall, quella sui Transatlantici ecc., in una vasta gamma di iniziative rivolte al pubblico più vario ed esigente. <br /><br /><span style="font-style:italic;">5)Dato che questa intervista apparirà in Germania, viene spontaneo chiederLe se in questo 2004 c'è qualcosa che lega Genova al mondo di lingua tedesca, tipo artisti ospiti o mostre.</span><br /><br />Una delle iniziative più interessanti legate al mondo di lingua tedesca è la mostra di oggetti, disegni, stampe di Joseph Beuys, allestita al Museo d'Arte Contemporanea di Villa Croce dal 4 marzo al 4 aprile. Ci sarà poi, all'interno del festival organistico europeo, una sezione dedicata alla musica organistica tedesca del tardo Ottocento e altre manifestazioni organizzate anche in collaborazione con il Goethe Institut di Genova. <br /><br /><span style="font-style:italic;">6)Sempre relativamente ai legami col mondo tedesco, io personalmente sono a conoscenza della mostra su Joseph Beuys. Perché proprio lui?</span><br /><br />Penso che la scelta degli organizzatori sia caduta su Beuys in quanto è considerato tra gli artisti tedeschi più importanti del dopoguerra, impegnato anche provocatoriamente ad ampliare il concetto di arte, considerando opera artistica anche l'agire sociale. <br /><br /><span style="font-style:italic;">7)In che misura è convolta la cittadinanza? Le iniziative riescono a inserirsi nel tessuto vivo della città oppure, come purtroppo accade spesso in Italia, sono come dei quadri appoggiati a una parete che rischiano di non lasciare traccia?</span><br /><br />La cittadinanza è stata coinvolta in via prioritaria nel momento stesso in cui si è incominciato a ragionare sul calendario delle iniziative. Allo scopo è stato anche creato un "Forum delle associazioni". Le molte anime culturali operanti sul territorio hanno partecipato attivamente con proposte, suggerimenti, consigli, condividendo pienamente il progetto. <br /><br /><span style="font-style:italic;">8)Oltre alle manifestazioni ufficiali è previsto uno spazio aperto per iniziative spontanee, soprattutto giovanili, ma non solo?</span><br /><br />Per le iniziative spontanee che non richiedano l'impiego di risorse economiche c'è sempre spazio. <br /><br /><span style="font-style:italic;">9)Negli ultimi tempi al di fuori di Genova si sono sentite lodi al livello (qualitativo e quantitativo) delle manifestazioni, ma critiche sulle indicazioni e sulla pubblicizzazione delle stesse (e qualche volta anche sulla presenza un po' eccessiva di cantieri aperti). Sono giustificate queste critiche? Cosa ha fatto (o sta facendo) il Comune al riguardo?</span><br /><br />Il Comune sta facendo tutto quanto è nelle proprie competenze. Come Lei certamente sa, l'evento 2004 coinvolge tutti gli enti territoriali genovesi. A tal fine è stato costituito un apposito Comitato, presieduto da me in quanto Sindaco, e di cui fanno parte, allo stesso titolo, Regione Liguria, Provincia, Autorità Portuale, Camera di Commercio, Università. Per l'organizzazione, la comunicazione e la promozione dell'evento è stata costituita una società apposita, denominata "Genova 2004", che, a quanto mi risulta, sta lavorando molto intensamente anche su questi aspetti. <br /><br /><span style="font-style:italic;">10)Si ha l'impressione (soprattutto noi italiani, anzi genovesi, all'estero abbiamo quest'impressione) che lo Stato abbia lasciato che Genova se la cavasse da sola, non si è avuta l'impressione che l'Italia si sentisse coinvolta. Eppure (e il comportamento di altri paesi in situazioni analoghe lo dimostra) questi eventi se adeguatamente sostenuti sono pubblicità per l'intero paese. Perché Roma sembra aver snobbato Genova?</span><br /><br />Credo che non sia giusto affermare che Genova sia stata abbandonata. Il Governo ci ha sostenuto con le risorse che riteneva opportuno destinarci. E' vero che altre città non italiane che hanno svolto il ruolo di capitale europea della cultura prima di Genova hanno ricevuto finanziamenti di maggiore entità, ma evidentemente, nel momento attuale, non era possibile per il Governo italiano disporre diversamente. <br /><br /><span style="font-style:italic;">11)Con Genova 2004 si chiude un quindicennio di eventi unici per la città (1990, mondiali di calcio, 1992, manifestazioni colombiane, 2001, G8, 2004, capitale europea della cultura), un quindicennio come raramente anche altre città italiane hanno avuto. Si può dire, senza timore di smentite, che Genova sia ora stabilmente inserita nel circuito culturale europeo? Come pensa di muoversi il Comune per evitare di uscirne una volta che i riflettori di Genova 2004 si spegneranno?</span><br /><br />Io credo proprio che Genova abbia tutte le caratteristiche per entrare nel circuito delle città d'arte e di cultura europee e che meriti di far conoscere il notevole patrimonio artistico e storico che le appartiene. Il nostro impegno, i nostri sforzi in vista del 2004 sono stati rivolti proprio a garantire benefici effetti futuri sulla città che possano durare ben oltre quest'anno simbolico. <br /> <br /><span style="font-style:italic;">12)E infine, quella che per un genovese è la domanda più importante: cosa resterà ai cittadini, a coloro che a Genova vivono e lavorano e a coloro che, pur non vivendoci, non vengono da turisti ma da genovesi? Cosa li accompagnerà a partire dal 2005 e potrà essere chiamato "risultato di Genova 2004"?</span><br /><br />Una città più bella, più vivibile, dotata di industrie tradizionali e innovative, con possibilità di crescita per le piccole e medie imprese, con un porto attivissimo e tra i primi nel Meditteraneo, una città divenuta recentemente sede dell'Istituto Italiano di Tecnologia, in cui sono attivi centri di formazione e di ricerca di eccellenza, una città multietnica e multiculturale, in cui si possa venire per ammirarne il fascino, per godere di paesaggi di suggestiva bellezza, ma anche per lavorare, per studiare, per investire.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1162294405683693802006-10-31T12:28:00.000+01:002006-10-31T14:09:00.276+01:00Mafia, Mafien... oder? - versione integraleIl 6 ottobre scorso pubblicai qui sopra il mio articolo <a href="http://i-miei-articoli.blogspot.com/2006/10/mafia-mafien-oder.html">Mafia, Mafien... oder?</a>, come apparso nel 2001 su <a href="http://www.contrasto.de">Contrasto</a>.<br /><br />Scrissi che la versione pubblicata era stata depurata per sicurezza di alcuni passaggi. Qui vi presento la versione integrale, mai pubblicata.<br /><br />Buona lettura,<br /><br />Mauro.<br /><br />---<br /><br /><span style="font-style:italic;">Gibt es Mafia auch in Deutschland oder nicht?</span><br /><br /><span style="font-weight:bold;">Mafia, Mafien... oder?</span><br /><br /><span style="font-style:italic;">Oft haben wir gehört, dass mit den italienischen Emigranten auch die Mafia in Deutschland gekommen ist, aber dass diese Mafia in den italienischen Kreise geblieben ist. Ist das wahr? Nicht ganz: die Mafia ist wirklich hier angekommen, aber die Geschichte ist ein bißchen anders.</span><br /><br />Qualche tempo fa, parlando con un avvocato qui in Germania, scoprii qualcosa tutto sommato non assurdo, ma che mi stupì non poco: due cittadine tedesche (Kempten e Münster) possono essere considerate come un “buen retiro” della mafia. Due luoghi dove i mafiosi che vogliono ritirarsi dagli “affari”, ma senza tradire, vanno a godersi la pensione. Due luoghi in cui, senza problemi, possono fare i pensionati.<br />Ma perché proprio la Germania? Perché proprio queste due località?<br />La Germania non è certo famosa per la tolleranza verso le attività illegali, non è un paradiso fiscale, ha legami con l’Italia abbastanza forti da poter permettere agli inquirenti italiani di venire qui a chiedere alle autorità tedesche di darsi da fare (e viceversa). Quindi, sembrerebbe l’ultimo paese in cui un mafioso possa sentirsi sicuro. Eppure...<br /><br />In effetti non è difficile capire l’importanza di città quali Münster e Kempten: cittadine tranquille, dove (non solo per i cittadini, ma anche per le autorità) il quieto vivere è più importante della giustizia e quindi dove si possono fare i propri affari senza problemi, fino a che non si disturbano gli altri. Cittadine ricche, e quindi dove un afflusso ulteriore di denaro non fa notizia, e soprattutto cittadine in posizioni strategiche. Münster, apparentemente isolata, ma ben collegata a centri finanziari quali Francoforte, Colonia, Londra e Amsterdam. Kempten, apparentemente ancora più isolata, ma vicina alla Svizzera (la grande “lavatrice” di tutti i capitali mafiosi) e non troppo lontana dall’Italia.<br />Per di più cittadine di un paese dove le leggi e le autorità sono sì severe, ma fino a poco tempo fa non abituate alla criminalità organizzata di stampo mafioso, quindi su certi argomenti “ingenue”.<br /><br />Ma la Germania non è solo un luogo di pensionamento per mafiosi, se così fosse tanto l’Italia quanto la Germania potrebbero permettersi sonni più tranquilli.<br />Il legame tra la mafia e la Germania è molto più articolato e ha avuto origine in maniera sistematica negli anni ‘70, una volta finita l’ondata dei “Gastarbeiter”, con una vera e propria esplosione dopo il 1989, dopo la caduta del muro di Berlino.<br /><br />Tutto sommato non è una sorpresa: la Germania è il cuore economico-finanziario d’Europa, quindi ogni tipo di commercio o attività finanziaria, legale o illegale, non può prescindere da questo paese. Per di più, dopo la caduta del muro e l’unificazione, essa è diventata la porta d’accesso privilegiata verso l’ex blocco sovietico, mercato vastissimo e non limitato da quelle regole che stanno frenando fortemente l’attività mafiosa all’interno della comunità europea.<br />A dimostrazione di questa centralità tedesca sta il fatto che recenti indagini (riportate in un reportage dal “Corriere della Sera”) hanno mostrato come un’organizzazione criminale molto meno organizzata e più “antiquata” della classica mafia, e cioè la ‘ndrangheta calabrese, investe in Germania la maggior parte dei propri guadagni.<br /><br />Nel 1998, “Die Welt”, riportando dichiarazioni e rapporti dell’unità investigativa antimafia bavarese e del Bundeskriminalamt, tracciò un quadro sommario, ma interessante, delle attività mafiose in Germania.<br />Secondo tale rapporto, le organizzazioni criminali italiane stanno sempre più trasferendo attività oltralpe e la Germania non è più solo zona di “pensione” o di parcheggio per killers, ma si sta sempre più trasformando in territorio operativo, con sempre maggiore indipendenza dalle centrali in territorio italiano. Le principali attività in territorio tedesco sarebbero il traffico di droga e armi, affiancate dal traffico di schiavi (prostituzione, lavoro nero, ecc.), dalla produzione di denaro falso, ma soprattutto il riciclaggio di denaro sporco, con investimenti spesso legali.<br />La mafia “tedesca”, ovviamente, ha sviluppato un comportamento diverso nei confronti del territorio rispetto alle origini italiane. Il vero e proprio controllo del territorio, sovrapponendosi allo stato, qui non esiste, in parte per la capacità dello stato stesso di opporvisi e in parte (forse soprattutto) per la terribile concorrenza delle mafie russa e turca, stabilitesi qui da anni. Le famiglie presenti in Germania fanno di tutto per mantenere un basso profilo, per non apparire, e ciò con lo scopo di poter lavorare indisturbate.<br /><br />Del resto questo abbandono del controllo del territorio a favore di una finanziarizzazione delle attività sta procedendo anche in Italia. Ed è credibile che ciò non sia dovuto solo ai successi ottenuti dalle autorità italiane nella lotta contro la criminalità, ma che le conquiste economiche operate dalla mafia in paesi come la Germania e i Paesi Bassi possano essere servite da esempio.<br />Per questo, lo stesso ministro Schilly ha dichiarato che la mafia non può essere combattuta dai singoli stati, ma solo dall’azione congiunta di essi e abbandonando le tecniche classiche a favore di investigazioni bancarie e fiscali (quasi seguendo l’esempio di ciò che fecero gli Stati Uniti per colpire Al Capone).<br /><br />Qualcosa di più preciso su ciò che è la Germania per la mafia può essere scoperto leggendo le trascrizioni delle sedute della Commissione Antimafia del Parlamento italiano.<br />In tali sedute sono stati interrogati pentiti di mafia i quali hanno chiarito molti punti oscuri o addirittura sconosciuti di tale rapporto.<br /><br />Elemento molto interessante è il modo in cui la mafia si rifornisce di armi.<br />Si è sempre detto che l’acquisto di armi avvenisse generalmente in Svizzera oppure nelle zone “calde” del globo, dove a causa di guerre le armi circolano quasi liberamente. Questo era vero fino a qualche tempo fa.<br />Dichiarazioni del pentito Leonardo Messina hanno messo a nudo una nuova strada per ottenere le armi, strada percorsa in Belgio e Germania. Qui, dai centri NATO, escono armi e materiali di ogni tipo che prendono la strada degli arsenali mafiosi, anche sfruttando l’apertura delle frontiere. Tali armi riescono a uscire dalle basi un po’ grazie alla corruzione dei militari e in parte grazie al maggiore lassismo nella sorveglianza che si ha dalla fine della guerra fredda. Spesso sono elementi della criminalità comune, non direttamente legati alla mafia, a portare fuori le armi e poi le “decine” (cioè le “filiali”) delle varie famiglie in Germania (in particolare nella zona di Mannheim) si occupano dell’acquisto e della distribuzione.<br /><br />Le stesse decine si occupano poi del già citato riciclaggio. I personaggi più importanti, tramite prestanome, possiedono grosse imprese, in particolare nel settore movimento terra, nel calcestruzzo e nell’import/export (dove vengono operati i maggiori investimenti e con il quale spesso si riesce a far passare il riciclaggio, quando le cose vanno male, come “semplice” elusione o evasione fiscale).<br /><br />Il cittadino tedesco però raramente è in grado di rendersi conto di questo intreccio di interessi sporchi e dell’avanzata della mafia in Germania.<br />Non è in grado di accorgersene in parte per la mancanza di strumenti culturali adeguati (fino a una ventina di anni fa le mafie erano fenomeni geograficamente circoscritti) e in parte per la capacità della mafia di nascondersi.<br />E non aiuta il fatto che spesso il giornalismo si sofferma sul lato romantico (il senso dell’onore e dell’appartenenza) o su quello brutale (la violenza, i fatti di sangue) della mafia. Due lati che nella realtà tedesca sono quasi assenti, ma che fanno vendere i giornali e riempire le sale dei cinema.<br />Il cittadino tedesco gradisce, eccome, questo tipo di descrizioni. Ciò è testimoniato anche dal successo avuto recentemente da un disco contenente le canzoni della ‘ndrangheta, canzoni che parlano di onore, avventura, vendette, violenza. Disco pubblicato proprio in Germania e che in Italia non avrebbe avuto altrettanto successo.<br /><br />I tedeschi sono comunque in buona compagnia: anche in Italia si comincia a credere che la mafia sia finita. E la si cerca nei cinema.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1162293869556249592006-10-31T12:11:00.000+01:002019-01-11T11:23:54.168+01:00Omaggio a Fabrizio De André - versione lungaL'ultimo articolo da me inserito nel blog era un ricordo di De André (<a href="http://i-miei-articoli.blogspot.com/2006/10/omaggio-fabrizio-de-andr.html">Omaggio a Fabrizio De André</a>), pubblicato su <a href="http://www.contrasto.de/">Contrasto</a>.<br />
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Come scrissi si trattava di una versione ridotta per la stampa e che la versione integrale venne pubblicata solo sul web.<br />
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Qui vi riporto la versione integrale.<br />
Avendo <a href="http://www.contrasto.de/">Contrasto</a> buona parte dei lettori tedeschi, è stato necessario inserire alcune note che per la maggioranza degli italiani sono inutili, ma che qui per completezza ho lasciato. <br />
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Buona lettura,<br />
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Mauro.<br />
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<span style="font-weight: bold;">Fabrizio De André, l’ultimo poeta ribelle</span><br />
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<span style="font-style: italic;">L’11 Gennaio è morto a Milano il cantautore genovese, ucciso da un tumore</span><br />
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Fabrizio De André si è spento alle 2.30 di mattina dell’11 Gennaio scorso, stroncato, a soli 58 anni, da un tumore. Era già ricoverato da tempo all’Istituto dei Tumori di Milano, ma la notizia ha comunque sconvolto il mondo musicale e culturale italiano e soprattutto gli innumerevoli appassionati del cantautore. Il 13 Gennaio si è tenuto a Genova, nella centralissima Basilica di Carignano, il funerale. Rigorosamente pubblico, perché, come hanno detto i famigliari dell’artista, “Fabrizio appartiene non solo alla famiglia, ma a tutti quelli che lo hanno amato”.<br />
Per tutta la giornata, il comune di Genova ha diffuso, tramite altoparlanti appositamente sistemati, lungo Via Garibaldi (dove é sito il municipio) le sue canzoni nel cielo della città. Mentre, dal piazzale davanti alla Basilica, la folla accorsa ai funerali poteva ammirare dall’alto il panorama dei “carruggi” <span style="font-weight: bold;">(1)</span>, gli stretti vicoli del centro storico genovese tanto amati dal cantautore e dai lui resi famosi con molte canzoni, soprattutto con la ballata “Via del Campo”.<br />
Al capezzale del cantautore, al momento del decesso, c’erano la moglie, Dori Ghezzi, e i figli, Cristiano e Luvi. “Papà è morto serenamente, gli eravamo accanto, gli stringevamo le mani”, ha detto Cristiano, da anni musicista come il padre e spesso suo collaboratore dal vivo e in studio. Lui, come il resto della famiglia, era riuscito a mantenere uno stretto riserbo sulla malattia di Fabrizio, ma da diverse settimane la voce che il cantautore fosse seriamente malato si era comunque diffusa, soprattutto nel mondo musicale. In autunno lo stesso cantante aveva pubblicamente annunciato la rinuncia a una serie di concerti, in quanto affetto da più di un’ernia del disco. Ernia che era stata scoperta a fine estate e che in realtà era un tumore.<br />
Tumore da De André affrontato con coraggio. Fino quasi a convincere gli stessi medici (e di sicuro Dori) che ce l’avrebbe fatta. Non é stato così e purtroppo la malattia gli ha impedito di morire nella sua amatissima e solare Genova, confinandolo in una nebbiosa Milano.<br />
Ma forse, il titolo del suo ultimo album, al passato (“M’innamoravo di tutto”) era già un commiato (consapevole?) da tutti i suoi fans, da tutti coloro che lo amavano.<br />
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De André era nato a Genova, nel ricco quartiere della Foce il 18 Febbraio del 1940. Figlio della borghesia agiata, è stato uno studente pigro fermatosi a pochi esami dalla laurea in legge, e ha avuto tra gli amici di sempre Paolo Villaggio <span style="font-weight: bold;">(2)</span>, Luigi Tenco <span style="font-weight: bold;">(3)</span>, Gino Paoli <span style="font-weight: bold;">(4)</span>.<br />
Fin da adolescente mostra insofferenza verso quella stessa borghesia genovese da cui viene e che, almeno in parte, frequenta. Preferisce infatti frequentare la Genova d’angiporto <span style="font-weight: bold;">(5)</span>, quella dei bordelli, dei pittori, dei tiratardi e i circoli anarchici di Genova e Carrara <span style="font-weight: bold;">(6)</span>. Alla laurea, come detto, non arriva mai. Non arriva perché allo studio dei codici antepone altre letture, divorando i classici della letteratura russa e francese e poi (soprattutto) i pensatori anarchici: Bakunin, Malatesta, Stirner. E comincia con una chitarra a raccontare le sue storie e i suoi personaggi che non hanno nulla di convenzionale. Sono emarginati, perdenti, reietti, puttane, drogati che De André nobilita sempre con il filtro della pietà, mentre a sbirri <span style="font-weight: bold;">(7)</span>, giudici e preti non risparmia gli strali del sarcasmo corrosivo.<br />
Bisogna sottolineare che, in effetti, la frattura con le sue origini familiari, con la cerchia sociale a cui sembrava destinato, era più di natura esistenziale che politica. La sua pigrizia (non per nulla Oblomov <span style="font-weight: bold;">(8)</span> era dei uno suoi eroi letterari) e il suo disprezzo per l’efficientismo lo allontanavano da ogni responsabilità di censo, e soprattutto da suo padre, “super” manager di una delle aziende genovesi importanti nel mondo, padre con cui manterrà sempre un rapporto di odio-amore, rafforzatosi in entrambi i poli - quello negativo e quello positivo - ai tempi del rapimento.<br />
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De André si sentiva profondamente mediterraneo, quasi un arabo di Genova, lontano dall’anglofilia di tanta nostra musica, e in quello che ormai é considerato il suo capolavoro (“Creuza de mä”, in lingua genovese) era approdato a un mondo sonoro gravido di spazio, di lentezza, di lontananza dalla frenesia malata, ridicola, spietata del nostro tempo. Un mondo sonoro che ritraeva perfettamente il carattere del Mare Nostrum <span style="font-weight: bold;">(9)</span>.<br />
Ha scritto poco relativamente ai ritmi discografici, moltissimo in rapporto alla propria indole. La qualità, rarefatta nel tempo (un disco ogni lustro negli ultimi tempi). é sempre rimasta altissima e, cosa rarissima nel mondo dell’arte, ha probabilmente raggiunto i suoi vertici proprio con le opere tarde, soprattutto “Creuza de mä” e “Le nuvole”.<br />
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Fin dagli anni Sessanta noi tutti da ragazzi ci siamo innamorati dei suoi eroi malvisti, derelitti, risplendenti di solitudine. E la forza delle sue parole, che rendevano reale la vaga idea che il mondo fosse ingiusto e ottuso, era una ferita, una ferita nell’animo. Quelle stesse parole erano la conferma dell’intuizione che l’arte e la poesia potessero essere la più radicale delle rivolte.<br />
Intuizione che, con il crescere, diventava un ricordo, quasi un peccato di gioventù, da nascondere conformandosi alle masse. Nei nostri animi si cicatrizzava. Nei nostri, ma non in quello di Fabrizio che continuava, anno dopo anno, disco dopo disco, a diffondere il suo credo anarchico e pacifista, a fare nuovi proseliti.<br />
Ma non dobbiamo dimenticare che, nonostante il suo pacifismo (immortale rimarrà l’immagine del soldato, che preferisce morire piuttosto che sparare, nella “Guerra di Piero”), le sue canzoni non erano per nulla incruente. Anzi, erano violente, durissime, facevano male. Il suo pensiero era animoso, duro fino all’acredine nella rappresentazione del potere, fortemente incline all’invettiva. E certamente nessuno dei cantautori italiani (tranne forse, con uno stile molto diverso, il Roberto Vecchioni <span style="font-weight: bold;">(10)</span> degli anni ‘70) ha saputo cantare così civilmente l’odio per l’inciviltà dei tempi e dell’uomo in generale. Anarchicamente, detestava le maggioranze e la loro forza conformistica, capace di anestetizzare i sentimenti. Ma, invece di ‘incazzarsi’ <span style="font-weight: bold;">(11)</span> e lasciarsi prendere dalla rabbia e dall’impotenza, lasciava scatenare la sua potenza narrativa, la sua anima poetica.<br />
Un altro, probabilmente, avrebbe finito per cadere nella trappola del terrorismo, delle bombe vere (come il suo “Bombarolo”). Le sue bombe invece erano canzoni: con esse, faceva esplodere le contraddizioni del proprio tempo, ne metteva a nudo le menzogne e le ipocrisie. Il linguaggio come arma, quasi sulle tracce di Pasolini.<br />
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Proprio Villaggio, uno degli amici d’infanzia, lo ricorda in maniera scarna, ma profonda, quasi volesse sottrarsi alla retorica che circonda la morte dei personaggi celebri: “Era intelligente, geniale, allegro, spiritoso, squinternato, un po’ vanitoso, snob: non era triste, come voleva l’immagine pubblica che gli avevano dipinto addosso; era un anarchico, grande poeta”.<br />
Crescendo, l’amicizia d’infanzia s’era consolidata anche in virtù di una comunanza ideale e caratteriale. “Avevamo caratteri simili”, prosegue Villaggio, “eravamo tutti e due squinternati, entrambi pecore nere delle rispettive famiglie. Abbiamo cominciato insieme a lavorare facendo intrattenimento sulle navi della Costa Crociere. Negli anni non abbiamo mai smesso di vederci.”<br />
Senza parole sono rimasti i componenti della Premiata Forneria Marconi, che con De André avevano suonato in una celebre, quasi leggendaria, tournée alla fine degli anni ‘70. “Una perdita dura, durissima”, riesce solo a dire Franz Di Cioccio.<br />
“Un grande poeta ci ha lasciato. Siamo tutti più tristi” sono le parole con cui Beppe Carletti, leader dei Nomadi, ricorda De André. “Non conoscevo benissimo De André, ma ho suonato tantissime volte le sue canzoni” spiega Carletti. “Lui era un grande, uno che non metteva mai in fila le cose: quello che aveva da dire lo diceva. Con Guccini, è stato il più grande della sua generazione”.<br />
E, per ripetere le parole con cui Michele Serra <span style="font-weight: bold;">(12)</span> lo ha ricordato su “Repubblica”, “aveva un bellissimo viso da signore, ancora ben intuibile dietro gli sfregi lividi dell’alcol, come in un ritratto di Bacon. Aveva una bellissima voce da uomo, profonda e fedele alle parole che pronunciava, levigata negli anni da un fiume di sigarette. E aveva un bellissimo cuore, il cuore dei grandi poeti, aperto al cielo, alle nuvole, alle donne che amano, ai soldati che muoiono, ai potenti che comprano, ai delinquenti che pagano”.<br />
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Ma come nasce il cantautore De André?<br />
Nel suo apprendistato alla musica, sul versante del jazz, incrocia spesso al Roby Bar (storico luogo di incontro dei giovani musicisti genovesi) Luigi Tenco che suona il sax e al cui gruppo si unisce. Poi passa in una formazione amatoriale di country, decidendosi infine a definire un proprio stile di cantautore scabro, crudo e pungente - ispirato ai transalpini <span style="font-weight: bold;">(13)</span> Brassens e Brel - colpendo immediatamente per i suoi toni vocali gravi, melodicissimi. La prima incisione é del ‘58: il 45 giri “Nuvole barocche”, pezzo scritto da altri che passa inosservato. Intanto si sposa e, a soli 23 anni, é già padre di Cristiano.<br />
Il brano che gli cambia la vita é “La canzone di Marinella”, interpretata da Mina nel ‘65, che diventa subito un successo. Il debutto come cantautore avviene tre anni più tardi con l’album “Fabrizio De André vol. 1”, che già contiene brani destinati a essere classici, come “Bocca di rosa” (ispirata a una figura reale, Maritza, prostituta slava che iniziò al sesso tanti giovani della Genova anni ‘60), “Via del Campo” e “Preghiera in gennaio”, scritta di getto poche ore dopo la morte di Luigi Tenco e a lui dedicata. Oltretutto, prematuramente in parte autobiografica: anche Fabrizio é morto in gennaio, e questa canzone é stata suonata ai suoi funerali. Il 1969 é l’anno della consacrazione: a ruota escono due album fondamentali, “Tutti morimmo a stento” e “Fabrizio De André vol. 2”, che balza subito in vetta alle classifiche e contiene inni epocali, come “La canzone di Marinella”, “La guerra di Piero”, “Il testamento”, mentre in “Tutti morimmo a stento” De André abbandona per la prima volta la forma canzone, per un album a tema con brani di ampio respiro.<br />
Nel 1970 De André pubblica nuovamente due dischi, “Volume III” e “La buona novella”. Nel primo ripropone la “Canzone di Marinella” (più tardi racconterà che Marinella era una prostituta realmente esistita e trovata morta lungo il fiume Tanaro). Ne “La buona novella” invece vengono audacemente messi in musica i Vangeli apocrifi, più umani e sensuali di quelli ufficiali.<br />
L’album successivo, “Non al denaro, né all’amore, né al cielo”, è liberamente ispirato all’"Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Masters e contiene quello che De André (come confessa il figlio Cristiano) considerava il proprio autoritratto: “Il suonatore Jones”. Dell’antologia lo aveva colpito l’idea che in vita, per scelta o per necessità, spesso si deve mentire, mentre la morte libera dalla menzogna, permette di essere sinceri.<br />
Nel 1973 De André realizza il suo disco più apertamente politicizzato, “Storia di un impiegato”, dove racconta l’odissea di un impiegato che, infervorato dal maggio francese, sogna di abbattere il sistema con esiti che sono, al contrario, autodistruttivi. Sulla strada del rinnovamento e del confronto (che lo porterà a diverse collaborazioni con altri artisti), Fabrizio incontra nel suo disco successivo, “Canzoni”, Francesco De Gregori, con cui traduce non solo l’amato Brassens, ma anche Leonard Cohen e Bob Dylan. Il disco “Volume VIII”, del 1975, cementerà compiutamente la collaborazione tra i due, con brani scritti a quattro mani.<br />
Nello stesso 1975, Fabrizio De André, da sempre refrattario ad apparire sul palco (di cui ha terrore), effettua il suo primo tour (a 35 anni!), partendo dalla più impensabile delle sedi: la Bussola <span style="font-weight: bold;">(14)</span>, culla del beat e delle canzonette da spiaggia. Si narra che avesse tanta di quella paura del pubblico da costringere il regista Marco Ferreri a tirarlo fuori dal camerino quasi a forza.<br />
“Da allora, per anni, non riuscii a salire sul palco se prima non avevo ingoiato un litro di whisky, per darmi coraggio”, confesserà. Nel 1977 diventa padre per la seconda volta, grazie alla sua nuova compagna, Dori Ghezzi. L’anno dopo pubblica “Rimini”. Fa seguito il lungo tour con la Premiata Forneria Marconi, che riaggiorna in chiave rock il suo repertorio. Questo tour verrà immortalato in doppio album dal vivo, il primo in Italia di un cantautore insieme a una rock band.<br />
Nello stesso anno, acquista un’azienda agricola in Sardegna. Ed è lì che il 28 agosto del 1979 viene rapito insieme a Dori Ghezzi. I rapitori volevano portare via solo lui, ma Dori disse “se prendete lui, dovete prendere anche me”. Nascosti tra le montagne sarde, incappucciati o incatenati a un albero, resteranno prigionieri per quattro mesi. Ma Fabrizio troverà, nonostante tutto, la forza di perdonare i suoi sequestratori (non i mandanti), dedicando all’esperienza vissuta una canzone dolorosa e splendida, “Hotel Supramonte”, una sorta di esorcismo del male subito. Tale canzone compare nell’album pubblicato nell’81, “Fabrizio De André”. Un disco dove l’autore costruisce un possibile parallelismo tra la cultura degli indiani d’America e quella autoctona del popolo sardo.<br />
Tre anni più tardi, nel 1984, esce “Creuza de mä”, un album destinato alla storia, forse il suo capolavoro assoluto. È un viaggio appassionato nella musica mediterranea e genovese in particolare, dove gli strumenti della tradizione nordafricana, greca, occitana convivono con quelli elettrici in un universo poetico di rara intensità. Il disco, interamente cantato in genovese, segna una pietra miliare nella allora nascente world music e viene idolatrato in tutto il mondo, come un caposaldo della cultura italiana. Nell’album successivo, “Le nuvole”, De André si ispira ad Aristofane <span style="font-weight: bold;">(15)</span>. E in un brano, l’apocalittico “La Domenica delle salme”, esprime il pericolo della normalizzazione d’una società senza più rabbia e ideali. L’ultimo disco di inediti, l’intenso “Anime salve”, viene concepito interamente insieme al collega e amico (e, almeno in parte, discepolo) genovese Ivano Fossati. Seguono un doppio disco dal vivo e l’antologia “M’innamoravo di tutto”, la prima (e a questo punto ultima) voluta e curata dall’autore stesso.<br />
Nel 1997 poi De André esordisce come scrittore. Scrive, in coppia con Alessandro Gennari, il romanzo “Un destino ridicolo”, che contiene molti spunti autobiografici, svelando il retroterra culturale di Fabrizio nella Genova degli anni ‘60. Il libro era destinato a diventare un film con la supervisione dello stesso cantautore. Soddisfazione negatagli dal destino.<br />
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Critici e letterati si sono spesso sperticati per esaltare le sue doti poetiche, rischiando di far passare in secondo piano (e spesso riuscendoci) il De André musicista. In realtà, di De André, non ci attrae solo quel che dice, ma anche il come lo dice. La cornice musicale é magistralmente usata per far risaltare il quadro dei contenuti. Egli usa in maniera sopraffina lo sfondo sonoro, la melodia e il timbro per intensificare o ribaltare il senso di quel che canta. Come l’impianto da rock sinfonico della “Ave Maria” sarda, oppure quando per tratteggiare l’impietoso affresco della “Domenica delle Salme” si serve del malinconico motivo della Barcarola di Ciaikovskij, o quando in “Ottocento” fa ricorso alle suggestioni dell’opera buffa e alla Vienna degli Strauss per accompagnare il suo tragicomico atto d’accusa antiborghese. Per non dimenticare la sua personalissima ma fedele interpretazione dei ritmi musicali popolari del Mediterraneo e del sud del mondo.<br />
Nel suo approccio con i diversi materiali sonori ha sempre dimostrato una sapienza e una consapevolezza dei fini espressivi più da musicista che da cantautore, consapevolezza dimostrata anche dalla scelta dei collaboratori, sempre musicisti e strumentisti di livello assoluto, mai semplici mestieranti.<br />
E anche grazie a questa sua continua attenzione alla musica che le sue canzoni di trent’anni fa, riarrangiate di continuo, suonano ancora come nuove. De André ne aveva dato ancora una volta dimostrazione quest’estate nel suo ultimo concerto romano. Un concerto affollatissimo e pieno di giovanissimi venuti a sentire quel grande vecchio capace di denudare il re senza gridare e perciò tanto più dirompente e irresistibile.<br />
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Non é un’esagerazione dire che con la scomparsa di Fabrizio De André si chiude un’epoca, una stagione straordinaria e lunga della musica italiana: quella della canzone d’autore. Non é un’esagerazione perché, nonostante siano ancora tra noi, e ci regalino ancora piccoli e grandi capolavori i vari Guccini, Vecchioni, Fossati, é stato De André l’ultimo vero rivoluzionario della nostra musica, colui che sapeva “stravolgere” a ogni nuovo disco la propria musica. De André é stato colui che più di tutti ha dato un senso alla definizione di “canzone d’autore” non tanto (o almeno, non solo) perché ha saputo creare uno stile personalissimo, che ha influenzato generazioni di musicisti e cantanti, quanto perché ha affrontato con una straordinaria coerenza la propria vicenda artistica, senza mai scendere a compromessi con il mercato, le classifiche, le mode, cambiando sempre sé stesso e la propria musica in completa libertà.<br />
Il vuoto che ha lasciato non sarà facile da colmare. E non solo perché la sua musica e la sua poesia sono state in pratica 35 anni della colonna sonora della nostra vita, ma perché con lui viene a mancare un punto di riferimento, forse unico, di sicuro insostituibile. Lui, scontroso, consumato dal fumo e dal whisky, era comunque uno di cui ci si poteva ancora fidare. In una folla soggetta all’imbroglio, anche la presenza di uno solo che non si lasci imbrogliare può fornire già un vantaggio, un appoggio. E lui, come forse altri suoi colleghi non sono riusciti a fare, é sempre e comunque stato una voce fuori dal coro. Non era un santo, tutt’altro, ma era dotato di invidiabile coerenza, é sempre rimasto sé stesso in mezzo a un mondo che perdeva turbinosamente la propria identità.<br />
Schivo e silenzioso per natura (e non per scelta pubblicitaria come Lucio Battisti), non é mai stato un personaggio pubblico, avendo sempre accuratamente evitato la mondanità e la televisione, ma facendolo in silenzio, senza provocare scalpore. Non ha mai fatto la vita della star, ma questo non gli ha risparmiato l’esperienza già citata del rapimento nel 1979.<br />
Ma, nonostante l’apparente misantropia, De André non si è in realtà mai isolato, non è mai stato un solitario, anzi ha saputo spesso e volentieri collaborare con altri musicisti e cantautori (Fossati, De Gregori, la PFM <span style="font-weight: bold;">(16)</span> tra gli altri), si è circondato del suo pubblico, con il quale ha instaurato un rapporto particolare fatto di fedeltà e di passione, e della sua famiglia, con cui ha fatto musica fino alla fine. Cristiano come musicista ad accompagnarlo, Dori e Luvi come coriste.<br />
Non è mai stato possibile utilizzare le classiche etichette per definire il suo modo di fare musica: persino agli esordi, quando le sue canzoni richiamavano in maniera esplicita gli chansonniers francesi, De André riusciva con il suo modo di cantare, con i suoi testi, con la sagacia delle sue prime semplici prove musicali, ad essere altrove, a non lasciarsi inquadrare nelle definizioni, nelle gabbie dei generi.<br />
Di certo è stato un rivoluzionario della canzone, capace per primo di liberare la musica italiana dai pesi della tradizione per affrontare il mare delle novità. Allo stesso tempo non ha mai dimenticato quella stessa tradizione, ha saputo recuperarne le parti più vive e importanti per farla diventare materiale vivo e pulsante. Non hai mai fatto beat e rock, almeno non nel senso stretto dei termini, ma i nostri anni Sessanta e Settanta portano il segno dei suoi testi, delle sue musiche molto più di quanto portino quello delle “rotonde sul mare” o delle scopiazzature da oltre oceano. E nel decennio successivo ha travolto qualsiasi ovvietà e preconcetto musicale, muovendosi con ineffabile leggerezza in scenari diversi e spesso originalissimi. Non era un poeta. Non era un cantautore. Era entrambe le cose, che in lui diventavano due inscindibili facce della stessa medaglia. Ha saputo riscoprire il rapporto tra musica e poesia, ha scandagliato la nostra musica popolare e ha reinterpretato la musica internazionale, francese e statunitense in particolare, e da ogni cosa che ha scoperto, che ha imparato ha saputo trarre una canzone, qualcosa da dividere con gli altri.<br />
E questo rivoluzionario scombussolato anarchico ora finirà sulle pagine della massima istituzione della cultura italiana: l’enciclopedia Treccani.<br />
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De André non é mai stato di moda. Infatti la moda, effimera per definizione, passa. Le canzoni di De André restano a brillare al sole di oggi come quando sono nate.<br />
Insomma, Fabrizio De André ha scritto canzoni uniche e meravigliose, che accompagnano la nostra vita e riescono a farcene vivere qualcun’altra. Canzoni grandi e piccole, colte e popolari. Canzoni da non dimenticare.<br />
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<span style="font-style: italic;">Note</span><br />
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<span style="font-weight: bold;">(1)</span> Vicoli, in dialetto genovese.<br />
<span style="font-weight: bold;">(2)</span> Attore comico, creatore del personaggio di Fantozzi.<br />
<span style="font-weight: bold;">(3)</span> Cantautore, suicidatosi durante un Festival di Sanremo.<br />
<span style="font-weight: bold;">(4)</span> Altro cantautore della scuola genovese.<br />
<span style="font-weight: bold;">(5)</span> Zona intorno al porto (presente in ogni città di mare), specie di zona franca per traffici illeciti e piccola malavita.<br />
<span style="font-weight: bold;">(6)</span> Cittadina toscana, una delle capitali italiane dell’anarchia.<br />
<span style="font-weight: bold;">(7)</span> Poliziotti.<br />
<span style="font-weight: bold;">(8)</span> Personaggio di Dostoievskij.<br />
<span style="font-weight: bold;">(9)</span> Mar Mediterraneo.<br />
<span style="font-weight: bold;">(10)</span> Cantautore milanese.<br />
<span style="font-weight: bold;">(11)</span> Forma gergale per ‘arrabbiarsi’.<br />
<span style="font-weight: bold;">(12)</span> Scrittore satirico.<br />
<span style="font-weight: bold;">(13)</span> Termine con cui in Italia si definiscono i francesi.<br />
<span style="font-weight: bold;">(14)</span> Locale in Versilia, famoso per essere alla moda e amato dai vip, non certo per le sue aperture culturali.<br />
<span style="font-weight: bold;">(15)</span> Autore della Grecia classica, scrisse l’opera teatrale “Le nuvole”.<br />
<span style="font-weight: bold;">(16)</span> Premiata Forneria Marconi.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1161350782533232622006-10-20T15:18:00.000+02:002006-10-26T10:44:54.870+02:00Omaggio a Fabrizio De AndréNegli ultimi tempi sembra essere riscoppiata una "moda" De André.<br /><br />Tutti cantano le sue canzoni senza che nessuno glielo chieda. Gli ultimi in ordine di tempo sono stati Claudio Baglioni (che non giudico, non avendo ancora ascoltato le sue interpretazioni di De André) e Gianni Morandi... quest'ultimo con un'interpretazione infamante sia della memoria di Fabrizio sia della sua propria carriera.<br /><br />E allora io ritiro fuori l'articolo che scrissi in suo ricordo poco dopo la sua morte nel 1999 per <a href="http://www.contrasto.de">Contrasto</a>.<br /><br />Qui vi presento la versione "breve" per la versione a stampa. In un prossimo messaggio presenterò la versione completa, pubblicata solo in rete.<br /><br />Buona lettura,<br /><br />Mauro.<br /><br />---<br /><br /><span style="font-weight:bold;">Omaggio a Fabrizio De André</span><br /><br /><span style="font-style:italic;">Mit dem Tod des genuesischen Liedermachers endet eine Epoche in Italien</span><br /><br />L'11 Gennaio scorso è scomparso, a causa di un tumore, Fabrizio De André. Questa è la notizia che all’inizio dell’anno ha scosso l’Italia della musica e della cultura, ma anche quella della gente comune. Notizia che nessuno si aspettava, anche se, in realtà, i più attenti avevano già potuto cogliere una sorta di definitivo commiato nel titolo del suo ultimo lavoro, scritto al passato (l’antologia “M’innamoravo di tutto”).<br /><br />Ma chi è stato Fabrizio De André? Cosa significa per la musica italiana la sua scomparsa?<br /><br />De André era nato a Genova, il 18 Febbraio del 1940. Di famiglia altoborghese, studente di giurisprudenza svogliato, ha sempre preferito la Genova dell’angiporto, quella dei disperati, alla Genova ricca e fortunata. I suoi compagni di strada, reali o metaforici, sono stati puttane e ubriaconi, emarginati e drogati. Mentre a chiesa e istituzioni non ha risparmiato il sarcasmo.<br /><br />La scelta dei disperati rispetto ai fortunati era prima esistenziale che politica: non sopportava i doveri materiali, l’efficientismo estremo, la “necessità” di produrre insita nella nostra società. Ha infatti inciso pochissimo rispetto ai classici ritmi dell’industria discografica (ma molto rispetto alla propria indole pigra).<br /><br />Negli anni sessanta cominciò a comporre. E gli ascoltatori scoprirono nella sua musica che l’arte e la poesia possono essere la più radicale delle rivolte. Con gli anni lui rimase sempre uguale, col suo anarchismo e il suo pacifismo, pacifismo per nulla incruento. Le sue canzoni erano dure, facevano male. I contenuti erano animosi, acri, tendenti all’invettiva. Pochi hanno saputo colpire duramente come lui la società. La sua rabbia sfociava in poesia, dove forse un altro avrebbe ceduto al terrorismo. Ma la sua arma, emulo di Pasolini, era il linguaggio.<br /><br />Comincia insieme a Luigi Tenco col jazz, prima di creare uno stile proprio - scabro, crudo, pungente, ispirato agli chansonniers francesi. Il suo primo singolo, del 1958, passa inosservato. La fama arriva nel 1965, con “La canzone di Marinella”, da lui scritta e interpretata da Mina. Nel 1968 il suo primo album, con “Bocca di rosa” e “Via del Campo”.<br /><br />La consacrazione è del 1969, quando incide “Tutti morimmo a stento” e “Fabrizio De André vol. 2”. Dei quali, il secondo contiene brani come “La canzone di Marinella”, “La guerra di Piero”, “Il testamento”; mentre il primo è un album a tema con brani di ampio respiro. Anche nel 1970 incide due album: “Volume III” e “La buona novella”. Ne “La buona novella” mette audacemente in musica i Vangeli apocrifi. L’album successivo, “Non al denaro né all’amore né al cielo”, è tratto dall’“Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters e contiene quello che De André considerava il proprio autoritratto: “Il suonatore Jones”.<br /><br />Il suo disco più politico è del 1973, “Storia di un impiegato”, ispirato ai moti studenteschi (“Il bombarolo” ne è la canzone simbolo). Nei due dischi successivi collabora con successo con Francesco De Gregori e traduce Cohen e Dylan. Nel 1978 pubblica “Rimini”. Fa seguito la lunga tournée con la Premiata Forneria Marconi, che vede la sua musica reinterpretata in chiave rock. Tournée, divenuta ormai quasi leggenda.<br /><br />Nel 1979 viene rapito. Fabrizio dedicherà nel 1981 a questa segnante esperienza una canzone dolorosa e splendida, “Hotel Supramonte”. Tre anni più tardi esce “Creuza de mä”, un album entrato nella storia, il suo capolavoro assoluto. Il disco è un viaggio nella musica del Mediterraneo, cantato interamente in dialetto genovese. Nell’album successivo, “Le Nuvole”, De André si ispira ad Aristofane e canta la morte degli ideali. L’ultimo disco di inediti, “Anime salve”, viene concepito insieme a Ivano Fossati, forse il suo vero erede musicale.<br /><br />Con la sua morte si chiude un’epoca: la sua libertà di pensiero era, e probabilmente rimarrà, unica. De André non è mai stato di moda. La moda passa. Le canzoni di De André restano e conservano il loro fascino. Canzoni da non dimenticare.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1160576456648216382006-10-11T15:55:00.000+02:002006-10-11T16:20:56.683+02:00Convegno sui movimenti democratici italiani e francesiNegli ultimi anni c'è stata una rinascita della domanda di "politica", non nel senso di partecipazione parlamentare (anzi: l'astensionismo cresce sempre di più), ma di attività di base, del "fare" politica al di là dei sistemi rappresentativi.<br /><br />Ciò purtroppo non dimostra che che la politica interessi fasce sempre più larghe della citadinanza, ma che chi si interessa sta ritrovando il coraggio, la voglia (e purtroppo la necessità, a quanto pare) di far sentire la propria voce.<br /><br />Nel 2003 venne organizzato presso l'<a href="http://www.romanistik.uni-frankfurt.de/index.html">Istituto di Romanistica</a> dell'Università di Francoforte sul Meno, qui in Germania, un convegno dedicato ai movimenti italiani e francesi, con interventi molto interessanti.<br /><br />Nel numero di novembre 2003 di <a href="http://www.contrasto.de">Contrasto</a> provai a riassumere i contenuti di detto convegno. Ve li rioffro qui.<br /><br />Buona lettura,<br /><br />Mauro.<br /><br />---<br /><br /><span style="font-weight:bold;">Convegno sui movimenti democratici italiani e francesi</span><br /><br /><span style="font-style:italic;">Dammbruch des Parlamentarismus und des Repräsentativsystems: die Demokratie?</span><br /><br />Il 20 e 21 giugno scorsi, presso l’Università di Francoforte, si è tenuto un convegno coordinato da Francesca Fabbri-Müller dedicato ai nuovi movimenti democratici italiani e francesi nati in risposta alla globalizzazione politico-finanziaria.<br /><br />Bisogna subito dire che sul convegno ha aleggiato fin da subito un’ombra: Berlusconi. Non solo per il fenomeno in sé, quanto per il fatto che pochi giorni prima in Italia era stata approvata la legge sull’immunità. Berlusconi è stato tema esplicito dell’intervento di Adrien Candiard (École Nationale Superieur, Parigi): “Il governo Berlusconi: anomalia o modello neoliberale?”. Candiard parte dal concetto tipico italiano di anomalia. Strappi come Berlusconi o Mussolini sono normalmente eccezioni, in Italia anomalie. Anche Mussolini cominciò come anomalia italiana e divenne quasi un modello europeo. Seguirà anche Berlusconi lo stesso percorso?<br /><br />Nicola Tranfaglia (Università di Torino) ha aperto il convegno parlando dei rapporti tra media e politica, cercando di inquadrare il fenomeno Berlusconi all’interno della situazione italiana. Situazione “debole”, particolare anche prima del suo avvento. Uno dei problemi, forse il meno conosciuto nonostante la sua importanza, è l’assenza di fatto in Italia di editori puri, con i conseguenti intrecci tra stampa, economia e politica.<br /><br />Il successivo intervento di Bernard Cassen (Le Monde Diplomatique) è stato dedicato ad <a href="http://www.france.attac.org/">Attac-France</a> e al <a href="http://www.forumsocialmundial.org.br/">Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre</a>, punto di partenza di un vero movimento mondiale, contraltare del forum economico di Davos. Il forum sociale e le sue versioni locali esprimono il bisogno di impegno politico attivo, il desiderio di guidarsi e non essere guidati. Questi forum, espressione di bisogni profondi, sono però ancora vittime di ambiguità e contraddizioni non risolte. Il rischio maggiore, dice Cassen, è costituito dal sottile confine tra radicamento e radicalizzazione.<br /><br />Su <a href="http://www.attac.org/indexfla.htm">Attac</a> e la sua genesi ha parlato anche Jacques Capdevielle (Istituto di Scienze Politiche del CNRS), sottolineando il ruolo attivo di <a href="http://www.france.attac.org/">Attac-France</a> e di <a href="http://www.monde-diplomatique.fr/">Le Monde Diplomatique</a> nell’organizzazione del Forum. Attac è nato nella seconda metà degli anni ’90 durante i negoziati <a href="http://www.oecd.org/">OCSE</a> per un accordo multilaterale sull’investimento, in reazione allo strappo tra politica e cittadini. Reazione che in parte contribuì al ritiro della Francia da tale accordo. La difficoltà di Attac (e non solo) è la comunicazione col “grande pubblico”. Attac conta 30.000 membri (in confronto, i verdi francesi 10.000), in Italia e Spagna migliaia di persone sono scese in piazza. Nonostante ciò Chirac, Aznar e Berlusconi ne sono stati intaccati elettoralmente in maniera limitata.<br /><br />Rimanendo in Francia, Erwan Lecoeur (dottorando di sociologia a Parigi) ha esaminato la figura di Le Pen e il populismo del suo <a href="http://www.frontnational.com/">Front National</a>. Anche in questo caso si ripropone il problema comunicativo: dal 1995 sul FN è infatti quasi calato il silenzio, sembra che il problema sia svanito. Un problema – come dimostrato dalle elezioni del 2002 – invece ben vivo. Il movimento di Le Pen sotto certi aspetti è una versione di destra dei movimenti democratici, una reazione alla globalizzazione. Le Pen parla facile, concreto, fornisce apparenti risposte. Rischiando così di indebolire i movimenti popolari più che la destra.<br /><br />Francesco Pardi (Università di Firenze) ha parlato poi dei <a href="http://www.igirotondi.it/">Girotondi</a> e della loro genesi: i movimenti sono una reazione non solo all’autocrazia berlusconiana, ma anche (o soprattutto?) all’inattività della sinistra. L’opposizione latita nel Palazzo? Si fa (non in modo violento) per le strade. Cristiano Barattino (studente dell’Università di Genova) tratta lo stesso tema di fondo, ponendo l’accento sulla reazione al G8 di Genova. Questi due interventi introducono anche il tema della rappresentatività. Il potere economico non elegge più i propri rappresentanti, si autoelegge.<br /><br />Ornella De Zordo (Università di Firenze) ha introdotto il <a href="http://www.labdem.net/">Laboratorio per la Democrazia</a>, che affronta la crisi della politica partecipativa anche a livello di teorico con gruppi tematici e studi. Particolarmente interessante tra i temi trattati dal <a href="http://www.labdem.net/">LabDem</a> il rapporto tra donne e politica: il governo Berlusconi ha costituito anche un passo indietro in merito alla presenza femminile in politica.<br /><br />L’ultimo intervento, di Paul Ginsborg (Università di Firenze), ha cercato di analizzare sociologicamente i movimenti, ponendo l’accento sui ceti medi, in passato visti negativamente, oggi diventati riflessivi e attivi, anche grazie alla società post-industriale che ha portato alla fine del dualismo padrone-operaio.<br /><br />Questo convegno ha cercato con successo di chiarire lo stato attuale dei movimenti. Il loro futuro resta però aperto e, in parte, accompagnato da incognite. Cosa sarà dei movimenti se dall’interno verrà chiesta una partecipazione, una responsabilità diretta? Riusciranno i movimenti italiani a diventare laboratori permanenti, oppure il giorno che cadrà Berlusconi perderanno spinta e vitalità?<br /><br />In attesa di queste risposte, i movimenti hanno intanto riportato la politica intesa nel suo senso più vasto di attività sociale e impegno concreto in mezzo alla gente. Cosa che alla politica “ufficiale” ormai da lungo tempo non riesce più.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1160138575602066442006-10-06T14:32:00.000+02:002006-10-06T14:42:55.620+02:00Mafia, Mafien... oder?Esiste la mafia in Germania? Facile (e giusto) dire di sì, ma come? In quali forme esiste? Su questo tema si sprecano i pregiudizi e i luoghi comuni.<br /><br />Esistono ormai innumerevoli studi sul tema... ma sembra quasi ci sia una certa paura a parlarne. Ma una paura strana, come se il rischio grosso non fosse quello di far "arrabbiare" la mafia, quanto quello di "sporcare" l'immagine della Germania. Un paese dove certe cose non ci sono.<br /><br />Ho provato anch'io a dire la mia sul tema in un articolo pubblicato sul numero di novembre 2001 di <a href="http://www.contrasto.de">Contrasto</a>.<br /><br />Premetto che l'articolo prima della pubblicazione era stato depurato di un paio di passaggi dalla redazione, non per censura, ma come misura di sicurezza (passaggi che andrò a ricercare e pubblicherò qui sopra).<br /><br />Buona lettura,<br /><br />Mauro.<br /><br />---<br /><br /><span style="font-weight:bold;">Mafia, Mafien... oder?</span><br /><br /><span style="font-style:italic;">Gibt es die Mafia auch in Deutschland, oder doch nicht?</span><br /><br />Qualche tempo fa, parlando con un avvocato qui in Germania, scoprii qualcosa di tutto sommato non assurdo, ma che mi stupì non poco: due città tedesche (Kempten e Münster) possono essere considerate come un “buen retiro” della mafia. Due luoghi dove i mafiosi che vogliono ritirarsi dagli “affari”, ma senza tradire, vanno a godersi la pensione. Due luoghi in cui, senza problemi, possono fare i pensionati. Ma perché proprio la Germania? Perché proprio queste due località?<br /><br />La Germania non è certo famosa per la tolleranza verso le attività illegali, non è un paradiso fiscale, ha legami con l’Italia abbastanza forti da poter permettere agli inquirenti italiani di venire qui a chiedere alle autorità tedesche di darsi da fare (e viceversa). Quindi, sembrerebbe l’ultimo paese in cui un mafioso possa sentirsi sicuro. Eppure...<br /><br />In effetti non è difficile capire l’importanza di città quali Münster e Kempten: luoghi tranquilli, dove (non solo per i cittadini, ma anche per le autorità) il quieto vivere è più importante della giustizia e quindi dove si possono fare i propri affari senza problemi, fino a che non si disturbano gli altri. Cittadine ricche, dove un afflusso ulteriore di denaro, di conseguenza, non fa notizia, e soprattutto cittadine in posizioni strategiche. Münster, apparentemente isolata, ma ben collegata a centri finanziari quali Francoforte, Colonia, Londra e Amsterdam. Kempten, apparentemente ancora più isolata, ma vicina alla Svizzera (la grande “lavatrice” di tutti i capitali mafiosi) e non troppo lontana dall’Italia.<br /><br />Per di più città di un paese dove le leggi e le autorità sono sì severe, ma fino a poco tempo fa non abituate alla criminalità organizzata di stampo mafioso, quindi su certi argomenti “ingenue”.<br /><br />Ma la Germania non è solo un luogo di pensionamento per mafiosi, se così fosse tanto l’Italia quanto la Germania potrebbero permettersi sonni più tranquilli.<br /><br />Il legame tra la mafia e la Germania è molto più articolato e ha avuto origine in maniera sistematica negli anni Settanta, una volta finita l’ondata dei Gastarbeiter, con una vera e propria esplosione dopo il 1989, dopo la caduta del muro di Berlino.<br /><br />Tutto sommato non è una sorpresa: la Germania è il cuore economico-finanziario d’Europa, quindi ogni tipo di commercio o attività finanziaria, legale o illegale, non può prescindere da questo paese. Per di più, dopo la caduta del muro e l’unificazione, essa è diventata la porta d’accesso privilegiata verso l’ex blocco sovietico, mercato vastissimo e non limitato da quelle regole che stanno frenando fortemente l’attività mafiosa all’interno della comunità europea.<br /><br />A dimostrazione di questa centralità tedesca sta il fatto che recenti indagini (riportate in un reportage dal <a href="http://www.corriere.it">Corriere della Sera</a>) hanno mostrato come un’organizzazione criminale molto meno organizzata e più “antiquata” della classica mafia, e cioè la ’ndrangheta calabrese, investe in Germania la maggior parte dei propri guadagni. Nel 1998, il quotidiano <a href="http://www.welt.de">Die Welt</a>, riportando dichiarazioni e rapporti dell’unità investigativa antimafia bavarese e del Bundeskriminalamt, tracciò un quadro sommario, ma interessante, delle attività mafiose in Germania.<br /><br />Secondo tale rapporto, le organizzazioni criminali italiane stanno sempre più trasferendo attività oltralpe e la Germania non è più solo zona di “pensione” o di parcheggio per killer, ma si sta sempre più trasformando in territorio operativo, con sempre maggiore indipendenza dalle centrali in territorio italiano. Le principali attività in territorio tedesco sarebbero il traffico di droga e armi, affiancate dal traffico di schiavi (prostituzione, lavoro nero, ecc.), dalla produzione di denaro falso, ma soprattutto il riciclaggio di denaro sporco, con investimenti spesso legali.<br /><br />La mafia “tedesca”, ovviamente, ha sviluppato un comportamento diverso nei confronti del territorio rispetto alle origini italiane. Il vero e proprio controllo del territorio, sovrapponendosi allo Stato, qui non esiste, in parte per la capacità dello stato stesso di opporvisi e in parte (forse soprattutto) per la terribile concorrenza delle mafie russa e turca, stabilitesi qui da anni. Le famiglie presenti in Germania fanno di tutto per mantenere un basso profilo, per non apparire, e ciò con lo scopo di poter lavorare indisturbate.<br /><br />Del resto questo abbandono del controllo del territorio a favore di una finanziarizzazione delle attività sta procedendo anche in Italia. Ed è credibile che ciò non sia dovuto solo ai successi ottenuti dalle autorità italiane nella lotta contro la criminalità, ma che le conquiste economiche operate dalla mafia in paesi come la Germania e i Paesi Bassi possano essere servite da esempio.<br /><br />Il cittadino tedesco, peraltro, è raramente in grado di rendersi conto di questo intreccio di interessi sporchi e dell’avanzata della mafia in Germania. Non è in grado di accorgersene in parte per la mancanza di strumenti culturali adeguati (fino a una ventina di anni fa le mafie erano fenomeni geograficamente circoscritti) e in parte per la capacità della mafia di nascondersi.<br /><br />E non aiuta il fatto che spesso il giornalismo si sofferma sul lato romantico (il senso dell’onore e dell’appartenenza) o su quello brutale (la violenza, i fatti di sangue) della mafia. Due lati che nella realtà tedesca sono quasi assenti, ma che fanno vendere i giornali e riempire le sale dei cinema.<br /><br />Il cittadino tedesco gradisce, eccome, questo tipo di descrizioni. Ciò è testimoniato anche dal successo avuto recentemente da un disco contenente le canzoni della ’ndrangheta, canzoni che parlano di onore, avventura, vendette, violenza. Disco pubblicato proprio in Germania e che in Italia non avrebbe avuto altrettanto successo.<br /><br />I tedeschi sono comunque in buona compagnia: anche in Italia si comincia a credere che la mafia sia finita. E la si cerca nei cinema.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com6tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1159805600379743092006-10-02T18:00:00.000+02:002006-10-02T23:35:30.116+02:00Gramsci e gli indifferentiQualche giorno fa ho pubblicato su questo blog un mio articolo critico nei confronti dell'astensionismo (<a href="http://i-miei-articoli.blogspot.com/2006/09/contro-ponzio-pilato.html">Contro Ponzio Pilato</a>), cercando di inquadrare il fenomeno da un punto di vista giuridico-costituzionale.<br /><br />Due mesi dopo, sempre su <a href="http://www.rinascita.de/rinascitaFlash.html">Rinascita Flash</a>, ho cercato di estendere l'analisi all'indifferenza in generale, partendo da una forte affermazione di Antonio Gramsci.<br /><br />Buona lettura,<br /><br />Mauro.<br /><br />---<br /><br /><span style="font-weight:bold;">Gramsci e gli indifferenti</span><br /><br />Sull’ultimo numero di <a href="http://www.rinascita.de/rinascitaFlash.html">Rinascita Flash</a> ho avuto la possibilità di pubblicare un articolo sull’invito a disertare i referenda da parte di chiesa e partiti. L’articolo cercava di dare un’inquadratura giuridico-costituzionale al tema, ma chi ha letto tra le righe ha capito di sicuro che il principale bersaglio della mia indignazione era il disinteresse verso la cosa pubblica del singolo cittadino. Che ricopra o meno cariche pubbliche.<br /><br />Non sono certo ne' il primo ne' l’unico a indignarsi per questo disinteresse.<br />Un certo Antonio Gramsci già negli anni giovanili scrisse un interessante articolo per il numero unico <a href="http://www.antoniogramsci.com/cittafutura.htm">„Città futura“</a> del 1917 dal titolo <a href="http://www.antoniogramsci.com/cittafutura.htm#indifferenti">„Indifferenti“</a>.<br /><br />L’incipit dell'articolo è significativo e a distanza di quasi un secolo non ha perso assolutamente nulla della sua attualità. Anzi è oggi ancora più attuale che allora. E Gramsci sa di non essere originale: anche lui si rifà chi c’era già prima, per la precisione al filosofo tedesco Friedrich Hebbel:<br />«Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che „vivere vuol dire essere partigiani“. Non possono esistere solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti».<br /><br />Non credo possano esistere parole più moderne e più concrete per descrivere le colpe di chi abdica alle proprie responsabilità, ma poi pretende di vedersi riconosciuti i propri diritti. Sì, sto parlando in primis di coloro che si astengono alle elezioni. Ma anche di tutti coloro che voltano lo sguardo dall’altra parte quando vedono problemi che non li riguardano personalmente. Ma poi si sentono vittime di chissà quale ingiustizia se non vengono aiutati quando hanno problemi loro.<br />Queste persone, è vero, non commettono nessun reato, non vanno contro la lettera delle leggi e delle costituzioni, però spesso producono danni morali e materiali molto maggiori di tante persone che commettono concretamente reati.<br />Perché? Nella maggioranza dei casi uno che commette un reato spera di non essere scoperto, però nel momento in cui è messo di fronte ai fatti piega il capo e si prende le proprie responsabilità (sto parlando di delinquenti che comunque sono esseri umani per quanto „negativi“, è chiaro che ciò non vale per tutti i delinquenti... un Adolf Hitler o un Jeffrey Dahmer dubito conoscessero anche solo la parola “responsabilità”). L’indifferente trova invece sempre una scusa per svicolare. E dato che non ha commesso reati, alla fine paga chi non è indifferente.<br /><br />L’esempio migliore sono le elezioni parlamentari. Ultimamente abbiamo avuto in Europa continentale una media del 30% di astenuti. Ora, il 30% dei voti la grande maggioranza dei partiti se lo sognano... ma non è questo il problema. Il problema è che c’è chi ha votato per la maggioranza e quindi, a ragione, pretende che la maggioranza mantenga le promesse fatte, lamentandosi per l’ostruzionismo dell’opposizione. E c’è chi ha votato per l’opposizione e pretende, ugualmente a ragione, che questa prema sulla maggioranza, la spinga o la blocchi e la costringa a compromessi. Entrambe le parti in questo caso non fanno altro che esercitare diritti non solo giuridici, ma anche morali.<br />Ma la terza parte, coloro che non hanno votato? Che diritto hanno di lamentarsi se la maggioranza e/o l’opposizione li danneggianno? Del resto loro se ne sono lavati le mani della cosa pubblica. Che dovere (morale) ha la cosa pubblica di occuparsi di loro?<br /><br />La cosa più grave è però che questa indifferenza si esprime nella vita in generale. Si lasciano morire gli altri (di fame, di malattia, di guerra) perché la cosa non ci riguarda. Però appena noi stessi, o un nostro caro amico o parente stretto, siamo in difficoltà, pretendiamo che la comunità (sia intesa in senso legale, cioè lo Stato, che in senso morale, cioè le singole persone) si occupi di noi.<br />Ne abbiamo diritto? Legalmente forse sì, ma a livello morale la risposta è solo una: no.<br /><br />È facile fare solo da spettatori e poi lamentarsi se le cose non vanno come vorremmo. È così difficile capire che se ci fossimo sporcati le mani forse avremmo potuto contribuire a farle andare come vorremmo? Cito nuovamente Gramsci:<br />«I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità.» Chiaro, no?<br /><br />Questo atteggiamento porta anche all’egoismo totale del mondo consumistico odierno. Dove l’importante è apparire non essere. E chi non è in grado di avere una „adeguata“ apparenza, non ha neanche il diritto di essere.<br />Al proposito posso „solo“ consigliare due letture estremamente interessanti.<br />La prima è un testo di Jean Ziegler che vi ho già consigliato in un altro articolo: „Die neuen Herrscher der Welt und ihre globalen Widersacher” (Goldmann, 2005). In particolare vi vorrei invitare a leggere pagina 283.<br />La seconda è l’ultima fatica di un giornalista italiano messo praticamente all’indice perché scomodo: Oliviero Beha. Il testo si intitola „Crescete e prostituitevi“ (BUR, 2005). Un testo che io definirei fondamentale per capire la situazione attuale, ma che è sconsigliabile da leggere se avete qualche scheletro (anche se magari in buona fede dimenticato) nell’armadio.<br /><br />Ziegler e Beha sono però persone che non sono „indifferenti“. Magari non tutte le loro idee sono giuste e condivisibili, però entrambi hanno il coraggio di esprimerle. Non si tirano indietro. Non se ne lavano le mani.<br /><br />La ricerca della superficialità, questa fuga dai pensieri forti, problematici è stata osservata anche da persone molto più vicine al cosiddetto pubblico, alla cosiddetta massa.<br />Tutti avrete sentito parlare dei concerti del „Live8“ organizzati per sensibilizzare i giovani e i governi sui problemi della povertà e della fame.<br />Uno di questi concerti è stato tenuto a Roma e uno dei gruppi italiani più amati dai ragazzini, „Le Vibrazioni“, dopo aver tenuto la sua parte di spettacolo, ai giornalisti che gli chiedevano le sue sensazioni ha rilasciato la seguente dichiarazione:<br />«Abbiamo avuto l’impressione di esibirci davanti a giovani insensibili, che vengono a vedere un artista che suona tre canzoni.»<br />Capite? Non è importante la motivazione dell’evento. È importante vedere il proprio idolo. Credo non servano altri commenti.<br /><br />Chiudo citando l’ultima frase dello scritto di Gramsci, che non posso non fare mia:<br />«Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.»Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1159524684628566572006-09-29T12:03:00.000+02:002006-09-29T12:11:24.676+02:00Che cos'è l'Italia?Anni fa, su un forum che gestisco sul web (<a href="http://it.groups.yahoo.com/group/bollettino/">Bollettino - Italienischer Stammtisch OnLine</a>) mi venne posta secca da una partecipante la domanda: Che cos'è l'Italia?<br /><br />Domanda difficile...<br /><br />Io risposi. E qualche tempo dopo <a href="http://www.contrasto.de">Contrasto</a> pubblicò questa mia risposta sulla sua rivista (nel febbraio 2000, per la precisione).<br /><br />Non si può definire un articolo, piuttosto un pensiero. Ma ve lo propongo lo stesso.<br /><br />Buona lettura,<br /><br />Mauro.<br /><br />---<br /><br /><span style="font-weight:bold;">Che cos'è l'Italia?</span><br /><br />L'Italia? L’Italia è un luogo dell’anima.<br /><br />È tutto e il contrario di tutto. È quello che gli italiani cercano di dimenticare, ma appena ci riescono, tornano a cercare. È il paradiso mascherato da inferno. È Europa e Africa, Asia e America. È quello che non riusciamo a definire, ma conosciamo benissimo. È quello che ci portiamo dentro quando siamo in giro per il mondo. È il paese che non sa farsi pubblicità. È il cuore staccato dal cervello, ma è anche un cervello che fa girare il mondo. È mare che si arrampica per i monti e monti che si tuffano in mare. È caldo e freddo. È la modernità antica e la memoria del domani. È volontà di fare ciò che non si sa fare e noia di fare ciò che si sa fare. È solitudine rumorosa, compagnia silenziosa. È proprietà di tutti e di nessuno. È una santa che si prostituisce oppure una prostituta che aspira alla santità. È ciò che si dovrebbe inventare se non ci fosse. È ciò che spesso si vorrebbe cancellare, ma poi cosa mettiamo al suo posto? È razionalità sposata alla superstizione. È malinconica allegria. È paura del futuro e del passato. È voglia di fuga dal presente.<br /><br />L’Italia è... e forse non serve dire altro.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1159442243301951822006-09-28T13:13:00.000+02:002006-09-29T18:06:03.583+02:00Piccola nota di servizioÈ appena arrivato un commento all'articolo <a href="http://i-miei-articoli.blogspot.com/2006/09/lultima-vittoria-di-wojtyla.html">"L’ultima vittoria di Wojtyla"</a> estremamente apprezzabile in toni e contenuti, però... anonimo.<br />L'autore o autrice non ha lasciato il suo nome indicato.<br /><br />Dato che mi sono ripromesso di non pubblicare messaggi anonimi, a prescindere da toni e contenuti, ma mi dispiace rifiutare questo commento, vorrei invitare l'autore o autrice a riscriverlo inserendo il suo nome (mi basta il nome, non servono cognome, e-mail o altri recapiti).<br /><br />Grazie.<br /><br />Saluti,<br /><br />Mauro.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1159366747784738162006-09-27T16:13:00.000+02:002006-09-29T18:20:23.010+02:00Il ritorno di SilviaÈ fresca fresca la notizia della definitiva scarcerazione, grazie alla legge sull'indulto, di Silvia Baraldini.<br /><br />Con tutte le polemiche che ne seguiranno, perché a quanto pare essere veramente di sinistra, coerenti e convinti come la Baraldini, sembra in questo paese (o forse in questo tempo) un reato molto peggiore dell'omicidio e della violenza carnale.<br /><br />Voglio qui presentarvi l'articolo che scrissi nell'ottobre 1999 per il numero 20 di <a href="http://www.contrasto.de">Contrasto</a>, in occasione dell'estradizione di Silvia in Italia.<br /><br />Buona lettura,<br /><br />Mauro.<br /><br />---<br /><br /><span style="font-weight:bold;">Il ritorno di Silvia</span><br /><br />Finalmente, dopo anni di tribolazioni e innumerevoli tentativi, gli Stati Uniti hanno acconsentito a firmare l’accordo per il rientro in Italia di Silvia Baraldini, da anni incarcerata oltreoceano per reati terroristici.<br /><br />Ma chi è veramente Silvia Baraldini? Cosa c’è dietro il suo ritorno in Italia? Non sono domande banali, in quanto la vicenda non è certo chiara e la politica prevale sulla giustizia.<br /><br />La storia di Silvia comincia nel 1982, quando viene arrestata con l’accusa di aver partecipato a una rapina in cui ci sono scappati due morti. Da quest’accusa verrà assolta, ma, nel 1983, viene di nuovo arrestata con varie accuse: partecipazione all’evasione di una terrorista, associazione per delinquere allo scopo di rapina, omicidio, sequestro di persona, partecipazione a rapina. Per i primi due di questi reati viene condannata nel 1984 a 40 anni di carcere (più altri 3 per non aver voluto deporre davanti al Grand Jury).<br /><br />Dopodiché la sua vita scorre tra sei diverse carceri negli USA (una delle quali verrà poi chiusa anche per intervento di Amnesty International, per la disumanità delle condizioni di detenzione). Nel 1988 le viene diagnosticato un tumore maligno a causa del quale viene sottoposta a due interventi chirurgici in condizioni a dir poco discutibili (non le vennero tolte le catene dai polsi neanche sul tavolo operatorio). Nel 1989 la prima richiesta italiana di estradizione (la convenzione di Strasburgo, sottoscritta tanto dall’Italia quanto dagli USA, prevede che un condannato possa scontare la pena nel suo paese d’origine). Infine i due viaggi negli USA di D’Alema di quest’anno (il primo subito dopo il verdetto sul Cermis, un caso?) a seguito dei quali si è ottenuto il rimpatrio. Prima di esaminare la sentenza (in realtà politica, in pieno stile McCarthy, non giudiziaria), cerchiamo di capire come Silvia si ritrovò dentro a questa storia.<br /><br />Trasferitasi nel 1961 negli USA con la famiglia, la Baraldini partecipò, seguendo le sue idee di sinistra, dapprima ai moti studenteschi e per i diritti civili e nel 1975 divenne quindi membro del gruppo “19 maggio”, in lotta (anche violenta) contro la discriminazione razziale. Da allora ne condivise l’attività politica, senza mai entrare in atti violenti, venendo comunque “schedata” dalle autorità. Venne infine incarcerata in base alla legge <a href="http://www.ricoact.com/ricoact/theact.asp">RICO</a>, legge istituita in funzione antimafia (e usata in senso estensivo solo per convenienza politica) che prevede che i crimini commessi dall’appartenente a un gruppo possano essere automaticamente addossati a tutti gli altri. I due reati imputati a Silvia rientrano in questa casistica. L’associazione per delinquere a scopo di rapina si riduce nel suo caso all’ideazione di una rapina poi mai avvenuta, in cui venne tirata in causa da un pentito che non è stato in grado di riconoscerla. La partecipazione all’evasione (incruenta) di Assata Shukur è stata data per certa dal tribunale, secondo cui Silvia guidò l’auto della fuga. In realtà la madre sostiene che Silvia era a Roma e non negli USA e in più una componente del gruppo (che attualmente gode di asilo politico a Cuba) dichiarò di essere stata lei, e non Silvia, alla guida.<br /><br />Allora perché questa condanna e un trattamento penitenziario disumano? Semplice quanto sconvolgente: perché Silvia era una dissidente, era contro il sistema.<br /><br />Come interpretare ora questo “cedimento” statunitense? Male, molto male. Non è un successo delle autorità italiane come scritto, bensì un ignobile baratto: l’Italia ha chinato la testa sull’atto criminale dei piloti del Cermis e soprattutto sullo scandaloso verdetto che li ha, di fatto, assolti. In cambio gli USA hanno restituito Silvia, di cui in realtà non sapevano più che farsene.<br /><br />A peggiorare il tutto c’è il testo dell’accordo tra Italia e USA per il rimpatrio: pochi ne conoscono il contenuto, ma il fatto che rappresentanti ufficiali dello stato italiano lo abbiano firmato è di una gravità inaudita, in quanto contiene clausole anticostituzionali. In pratica, con tale firma l’Italia si impegna a mantenere le stesse condizioni carcerarie statunitensi, cioè a non applicare leggi costituzionalmente garantite.<br /><br />Se l’Italia rispetterà tale firma avremo l’ennesima dimostrazione di essere semplicemente una colonia, e non uno Stato sovrano.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1159263883902272352006-09-26T11:28:00.000+02:002006-09-29T18:32:03.333+02:00Contro Ponzio PilatoIn occasione dei referenda del 2005 sulla procreazione assistita trionfò l'astensionismo. Io scrissi al proposito un articolo cercando di dare un inquadratura giuridico-costituzionale alla questione, nel piccolo delle mie possibilità.<br /><br />È interessante in certi casi scoprire quante cose non si sanno: per esempio che invitare all'astensione non è morale lo sappiamo tutti (anche se quando ci conviene lo dimentichiamo), ma quanti sanno che in molti casi è anche reato?<br /><br />E, per chi è credente, andrebbe pure considerato peccato... almeno, così ci insegna la Bibbia.<br /><br />Qui vi presento l'articolo pubblicato nell'estate del 2005 su <a href="http://www.rinascita.de/rinascitaFlash.html">Rinascita Flash</a>.<br /><br />Buona lettura,<br /><br />Mauro.<br /><br />---<br /><br /><span style="font-weight:bold;">Contro Ponzio Pilato</span><br /><span style="font-weight:bold;">Contro Don Abbondio</span><br /><br /><br />I referenda del 12-13 giugno sono passati. E sono falliti.<br />Intendiamoci, non è un fallimento che il sì non abbia vinto. Qualunque siano le nostre personali idee, qualunque sia il bene (reale o ipotetico) dello Stato, ogni referendum che raggiunga il quorum è un successo. Che vinca una parte o l’altra.<br />Qualunque referendum che venga invalidato a causa dell’astensionismo è un fallimento.<br />Un fallimento dello Stato, un fallimento dell’informazione, un fallimento della democrazia. E soprattutto un fallimento dell’intelligenza.<br /><br />Ma non è il momento di parlare di ideali: per condannare il Ponzio Pilato astensionista sono più che sufficienti dati concreti. Leggi, Costituzione e Bibbia.<br /><br />Tenendo conto che i primi sostenitori dell’astensione sono stati i vescovi e i cosiddetti partiti cattolici, è interessante partire dalla Bibbia.<br />E più precisamente dal <a href="http://www.liberliber.it/biblioteca/b/bibbia/la_sacra_bibbia/html/05_01.htm">Vangelo secondo Matteo</a>, un testo che a quanto pare non gode di molta fortuna letteraria all’interno del mondo cattolico, visto che è stato completamente disatteso il suo insegnamento.<br /><br />In due punti il Vangelo secondo Matteo smentisce il comportamento dei vescovi.<br />Matteo 5,37: “Il vostro parlare sia sì, sì; no, no; poiché il di più viene dal maligno”. Tradotto in parole povere: abbiate il coraggio di esprimere le vostre opinioni, di prendervi le vostre responsabilità. L’astenervi dal prendere posizione è male. Forse addirittura peccato.<br />Matteo 22,21: “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Tradotto anche qui in parole povere: siate laici, non lasciate che la fede governi lo Stato e neanche che lo Stato vi imponga una fede.<br /><br />Il nuovo Testamento ci viene in aiuto in un altro punto, per la precisione nella <a href="http://www.liberliber.it/biblioteca/b/bibbia/la_sacra_bibbia/html/06_07.htm">Lettera ai Colossesi</a> 2, 16-21. La citazione è lunga e me la risparmio, riassunti però questi versi chiedono ai cristiani di rispettare le leggi (laiche!) dello Stato, senza tradire i propri principi religiosi. I vescovi ci hanno chiesto molto più semplicemente di venire meno alle regole dello Stato e di impedire agli altri (tramite l’astensione e, di conseguenza, l’annullamento del voto di chi alle urne è andato) di poter esprimere le proprie idee. Insomma: la legge va rispettata, ma avete il dovere di parlare, di difendere le vostre idee. Non di astenervi.<br /><br />Come sarcasticamente, ma correttamente, ha commentato Vittorio Zucconi sul sito web di Repubblica: “Don Abbondio si sarebbe astenuto”. Don Abbondio. Non Cristo.<br /><br />Non tutti sono però credenti. A coloro cui la Bibbia non dice nulla, può forse venire in aiuto la <a href="http://www.quirinale.it/costituzione/costituzione.htm">Costituzione della Repubblica Italiana</a>. Un testo che dovrebbe unire tutti i cittadini italiani, qualunque credo religioso o politico essi abbiano.<br />E comunque un testo che tutti, volenti o nolenti, devono rispettare, in quanto costituente la legge fondamentale dello Stato.<br /><br />La Costituzione contiene nell’articolo 48 (Titolo IV, “Rapporti politici”) due frasi molto importanti.<br />“Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”. Non obbligo, ma comunque “dovere civico”. Civico significa anche “del cittadino”. Come fa uno che non adempie ai propri doveri civici pretendere di veder rispettati i propri diritti di cittadino? In sostanza: hai il diritto di non votare, ma così facendo decidi tu stesso di catalogarti come cittadino di serie B.<br />La seconda frase interessante, che è anche la più importante, recita: “Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge”.<br />Cosa è invece successo? Che il 25% (più quelli che non hanno potuto votare per impossibilità e non per scelta) dei cittadini italiani hanno visto il proprio diritto di voto non solo limitato ma addirittura annullato grazie alla campagna astensionista condotta non solo dalla chiesa, ma addirittura da esponenti di punta della politica e da membri del Parlamento della Repubblica Italiana.<br />Il voto di chi si è recato alle urne è stato, grazie al non raggiungimento del quorum, annullato, cancellato. A queste persone è stato di fatto negato il diritto di esprimere la propria voce nel segreto dell’urna, in quanto questa voce è stata a posteriori cancellata.<br /><br />Molte persone considerano però Bibbia e Costituzione come “ideali”, non come leggi. Insomma dei cataloghi di opzioni che possono essere rispettati o meno, a seconda di voglia e convenienza.<br />Per quanto possa essere antipatico, questa visione può essere accettata (non apprezzata, però) per quanto riguarda la Bibbia, essendo essa un testo religioso, non un codice legislativo. La Costituzione però è legge effettiva. La legge suprema di uno Stato.<br />Molti non lo sanno. Ritengono che la Costituzione sia solo una dichiarazione di intenti.<br /><br />In questo caso ci vengono in aiuto le leggi della Repubblica Italiana. Anche se, per assurdo, avessero ragione coloro che ritengono la Costituzione solo una dichiarazione di intenti, questi non sarebbero comunque giustificati nella loro propaganda astensionista. Anzi, secondo la legge sarebbero condannabili alla reclusione da sei mesi a tre anni (oltre che a pene pecuniarie).<br /><br />Leggiamo l’articolo 98, titolo VII, del D.P.R. n. 361 del 30 marzo 1957 (<a href="http://www.camera.it/index.asp?content=%2Fcost%5Freg%5Ffunz%2F667%2F668%2Fcopertina%2Easp%3F">“Testo unico delle leggi elettorali”</a>): “Il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio, l’esercente di un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera a costringere gli elettori […] o ad indurli all’astensione, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire 600.000 a lire 4.000.000”. In breve: è lecito astenersi, ma è reato propagandare l’astensione.<br />Questa legge per anni è stata discussa, nel senso che ci si chiedeva se valesse solo per le elezioni o anche per i referenda.<br />Il dubbio è stato risolto con la legge n. 352 del 25 maggio 1970 <a href="http://consiglio.regione.sardegna.it/sito/Manuale%20consiliare/Parte%20II/017%20L%20352-70.pdf">“Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo”</a>. Questa legge dice nell’articolo 51: “Le disposizioni penali, contenute nel Titolo VII del testo unico delle leggi per la elezione della camera dei deputati, si applicano anche con riferimento alle disposizioni della presente legge”.<br />In breve: anche sui referenda è lecito astenersi, ma è reato propagandare l’astensione.<br /><br />Riassumendo il tutto: chi non si è recato a votare per scelta ha dimostrato di essere un pessimo cristiano e un pessimo cittadino, e chi lo ha indotto a non votare ha addirittura commesso reato.<br /><br />Del resto il voto concedeva a tutti ogni possibilità di difendere le proprie idee:<br />1) Contrario alla legge? Voti sì.<br />2) Favorevole alla legge? Voti no.<br />3) Indeciso oppure convinto che debba decidere il Parlamento e non il popolo? Voti scheda bianca.<br /><br />Insomma: alla fine non ha vinto l’una o l’altra posizione politica oppure la chiesa. Hanno vinto Ponzio Pilato e Don Abbondio, la vigliaccheria e il rifiuto di prendersi le proprie responsabilità.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1158502933017363952006-09-17T16:14:00.000+02:002006-09-29T18:48:07.926+02:00L’ultima vittoria di WojtylaHo appena scritto nel mio altro blog (<a href="pensieri-eretici.blogspot.com">Pensieri eretici</a>) a proposito del caos provocato dal <a href="http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2006/september/documents/hf_ben-xvi_spe_20060912_university-regensburg_it.html">discorso</a> tenuto da Benedetto XVI a Ratisbona.<br /><br />Colgo quindi l'occasione per riportare qui quanto scrissi in occasione della sua elezione per il terzo numero del 2005 di <a href="www.rinascita.de/rinascitaFlash.html">Rinascita Flash</a>.<br /><br />Buona lettura,<br /><br />Mauro.<br /><br />---<br /><br /><span style="font-weight:bold;">L’ultima vittoria di Wojtyla</span><br /><br />Ce l’ha fatta… nonostante che volesse far credere di non essere interessato al soglio pontificio, Jospeh Ratzinger è riuscito a diventare papa.<br /><br />Cosa ci aspetta ora? Quali conseguenze avrà questa scelta sul futuro della Chiesa, in senso religioso e politico?<br /><br />Per prima cosa possiamo affermare, senza tema di smentita, che nononostante il modo molto diverso di presentarsi al mondo (dalla rockstar Wojtyla si passa all’eminenza grigia Ratzinger) la scelta del Conclave è nel solco della continuità.<br />La Chiesa non ha voluto rinnovarsi, ha confermato la chiusura alla modernità, al dialogo con la critica, con l’eterodossia.<br />Ha confermato il “diritto divino” contro l’essere umano.<br /><br />Certo, ci si può sempre sbagliare, e non sarebbe la prima volta che un Papa, da Papa smentisca in positivo o in negativo quanto fatto da cardinale.<br />Però le premesse non lasciano presagire nulla di buono… a partire dal fatto che Ratzinger è Prefetto per la Congregazione per la dottrina della fede, più comunemente nota come Sant’Uffizio. Cioè l’ufficio vaticano che oggi si preoccupa di difendere l’ortodossia più rigida contro gli “assalti” del modernismo… e in passato si occupava di mettere all’indice i libri proibiti.<br /><br />Sospendiamo quindi il giudizio su Ratzinger fino a quando non vedremo i suoi primi atti da Papa, però teniamo gli occhi aperti e non dimentichiamo che è stato il braccio armato di Wojtyla contro la Teologia della Liberazione, contro l’omosessualità, contro il sacerdozio femminile, contro il matrimonio dei preti, contro un effettivo riconoscimento delle Chiese protestanti.<br /><br />Del resto cosa aspettarsi da un Papa che è stato professore universitario non di teologia, ma di dogmatica (e, come disse Claudio Magris, le parole sono fatti, non dimentichiamolo)?<br /><br />Wojtyla dopo morto sembra aver ottenuto la sua più grande vittoria.<br />Speriamo che Ratzinger in un moto d’orgoglio sappia liberarsi dalle catene dogmatico-wojtylane che finora ha con apparente piacere sopportato.<br /><br />A suo merito, e a nostra speranza, bisogna dire che Ratzinger è alieno dal culto della personalità. Speriamo che basi il suo papato su queste fondamenta e non sul suo integralismo rigido, vicino all’Opus Dei.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com23tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1158500127566150042006-09-17T15:35:00.000+02:002006-09-17T15:35:27.576+02:00RieccomiDopo quasi un mese di assenza per vacanze (spero meritate) e impegni vari, rieccomi qui.<br /><br />Non vi siete liberati di me :-)<br /><br />Saluti,<br /><br />Mauro.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1155376668428788012006-08-12T11:43:00.000+02:002006-09-29T12:16:30.523+02:00Una speranza per la sinistra?E ora parliamo un po' di politica.<br /><br />Premetto subito: io sono una persona di sinistra, quindi sono di parte. Però occuparsi di politica significa saper ascoltare, saper leggere e capire (attenti: capire non significa approvare, come spesso ci viene fatto credere) anche le tesi, i programmi della parte opposta. Se no, non si fa politica, ma populismo.<br /><br />Il problema grosso però in questo momento sta non in noi poveri diavoli che ci occupiamo di politica, ma nella politica "professionista". In questo momento non vedo purtroppo programmi concreti da discutere, da approvare o da condannare. E non li vedo ne' a destra, ne' a sinistra, ne' tanto meno al centro.<br /><br />Io vivo in Germania e quindi nel quotidiano sono più coinvolto nei fatti tedeschi, che in quelli italiani.<br />Nella primavera del 2005, dopo aver letto alcuni libri decisamente interessanti, scrissi per <a href="http://www.rinascita.de/rinascitaFlash.html">Rinascita Flash</a> un articolo su un possibile programma per la sinistra in Germania (e in senso lato in Europa). Ve lo propongo perché alcune tesi di fondo sono tranquillamente valide anche per l'Italia (e magari prossimamente scriverò qualcosa di direttamente riferito all'Italia, prendendo spunto da alcuni interessanti libri di Bocca, Salvi e Giavazzi che ho letto di recente).<br /><br />Buona lettura,<br /><br />Mauro.<br /><br />---<br /><br /><span style="font-weight:bold;">Una speranza per la sinistra?</span><br /><br />È crisi. Crisi politica, ideologica, elettorale per la sinistra. Crisi spesso personale per le persone che nella sinistra hanno creduto. E credono. E soprattutto per coloro che della sinistra e delle speranze che porta (o dovrebbe portare) hanno bisogno.<br /><br />Cosa succede? Dove va la sinistra?<br /><br />Tony Blair si sposta a destra e trasforma il partito laburista in una copia “telegenica” dei conservatori.<br />Gerhard Schröder si definisce rappresentante della “neue Mitte” e ascolta più gli industriali dei sindacati.<br />Piero Fassino rivaluta Craxi e si deve (o vuole?) appoggiare agli ex democristiani per battere (forse) Berlusconi.<br /><br />E allora? Dove rimane e dove va la sinistra?<br /><br />Questa sinistra non va da nessuna parte. Si è infilata in un vicolo cieco che può solo significare il trionfo della destra. O di una destra che usa nomi di sinistra.<br />Quali possono essere le ricette per cambiare la strada, per dare speranza a chi viene sempre più messo ai margini della società, sia civile che economica?<br /><br />Negli ultimi tempi sono stati pubblicati qui in Germania vari libri che, di fatto, contengono non una speranza, ma un programma per la sinistra. Un programma pragmatico, realizzabile, concreto e “di sinistra”.<br />Libri che probabilmente Schröder e Müntefering (nonostante le sue populistiche uscite nel tentativo di ribaltare il trend per le elezioni nel Nordrhein-Westfalen) non hanno letto e non hanno nessun’intenzione di leggere. O, nella migliore delle ipotesi, non hanno capito.<br /><br />È interessante partire da quanto scritto da un giornalista, non da un economista o un politico. Un giornalista non conservatore, ma non certo tacciabile di comunismo. Stiamo parlando del caporedattore degli interni della Süddeutsche Zeitung, Heribert Prantl, che nel suo ultimo libro (“Kein schöner Land”, Droemer, marzo 2005) fa un’analisi spietata della distruzione dello stato sociale con tutto ciò che comporta (e il sottotitolo è significativo: “Die Zerstörung der sozialen Gerechtigkeit“ – con accento sul fatto che “stato sociale”, di fatto, significa “giustizia sociale”).<br />Nel libro Prantl dimostra senza possibilità di smentita che la nuova legislazione in materia, le cosiddette riforme, sono una strada verso la povertà. Non solo per le singole persone, per le fasce più deboli, ma per lo stato tutto e in ultima analisi anche per il mondo economico. E soprattutto come questa strada può portare rischi alla pace sociale, non solo ai portafogli. Perché con i partiti popolari che si allontano dal popolo si libera spazio per il populismo. E NPD e DVÜ entrano nei parlamenti regionali.<br />Prantl non fornisce esplicitamente ricette per risolvere il problema, ma chi è capace di capire quanto legge e non si ferma alla lettera non può che concludere, grazie all’analisi concreta (non politica) presentata nel libro, che la strada per uscire dalla crisi è un ritorno allo stato sociale. Forse non così massiccio come negli anni ’70, ma di sicuro non quello prospettato dal “confindustriale” Schröder.<br /><br />Prantl non è stato però il primo a mettere il dito nella piaga delle riforme. Qualche mese prima Albrecht Müller, economista SPD ed ex consigliere di Willy Brandt, aveva dato alle stampe un’analisi degli errori, non solo politici ma anche logici, e delle bugie che stanno dietro alle riforme (“Die Reformlüge”, Droemer, agosto 2004).<br />Müller elenca 40 di questi errori - divisi tra errori logici, bugie, promesse vuote – che stanno falsando il dibattito sulle riforme. Bugie ed errori che, guarda caso, portano tutti nella direzione voluta dall’industria e, soprattutto, dalla finanza. Riforme che sono solo un trionfo del cosiddetto libero mercato. Libero però non da ingerenze politiche od ostacoli statalisti, bensì da regole e doveri. Cioè selvaggio, non libero.<br />Müller non scrive da politico ma da economista, citando dati, numeri e mostrando tabelle. E soprattutto scrive in maniera semplice, riuscendo a farsi capire da tutti. Da tutti quelli cha hanno la voglia di capire. Alcuni argomenti presentati nel libro possono essere scomodi e forse antipatici, alcuni (molto pochi per la verità) dei 40 “errori” possono essere forse anche interpretati in maniera diversa, opposta. Ma nonostante tutto rimane una lettura utile.<br />Io direi necessaria.<br /><br />Alle accuse, rivolte da alcuni cosiddetti “media moderati” ai due autori di cui sopra, di essersi appiattiti sulle posizioni del “traditore” Oskar Lafontaine (traditore di cosa? L’idea SPD è stata tradita da Schröder, che, di fatto, ha cacciato Lafontaine dal partito), rispondo parlando proprio del suo ultimo libro (“Politik für alle”, Econ, aprile 2005).<br />Questo testo fornisce per così dire un retroterra politico a quanto abbiamo visto nei libri di Prantl e Müller.<br />Il tema di base è sempre quello dell’ingiustizia sociale. Oltre alle conseguenze economiche della strada intrapresa dal governo, Lafontaine vede chiaramente anche il pericolo del definitivo allontanamento della politica dalla gente. Politica “per tutti” non solo nel senso che compito dello stato è quello di occuparsi di tutti i suoi cittadini (e non solo dei ricchi), ma anche nel senso che è compito dei partiti porsi in maniera tale da spingere la gente comune a occuparsi di politica, magari non in maniera attiva, ma almeno informandosi e seguendone gli sviluppi. E ciò si ottiene occupandosi delle cose concrete che riguardano la vita di tutti i giorni.<br />Il grosso timore di Lafontaine è una smobilitazione della democrazia, con la politica che va in direzione oligarchica e la gente comune in balia del populismo.<br /><br />A una domanda però questi libri non danno risposta, almeno non esplicita.<br />Perché il liberismo trionfa se giova solo a pochi? La risposta banale, secondo cui trionfa perché questi “pochi” hanno il potere, non basta.<br />Una risposta la troviamo nell’ultimo lavoro del giornalista svizzero Jean Ziegler (“Die neuen Herrscher der Welt und ihre globalen Widersacher“, Goldmann, gennaio 2005).<br />Il libro non si occupa della situazione tedesca ne’ del futuro della sinistra, si occupa dei problemi della globalizzazione, però una delle tesi esposte in apertura risponde a mio parere benissimo alla domanda sul perché del trionfo del liberismo.<br />La finanza e in buona parte anche la politica non sono mai state sociali, l’obiettivo di un industriale o finanziere è sempre stato il massimo arricchimento personale, senza preoccupazione per le persone (dipendenti, clienti o concorrenti che siano). La divisione in blocchi, con il mondo comunista sovietico giusto fuori della porta, faceva però paura. Le elite destrorse dell’occidente temevano che i soviet potessero diventare un esempio per gli operai, i contadini, gli impiegati in Europa e Nord America, e quindi si è “inventato” lo stato sociale per tenerli buoni, per dimostrare che il sistema occidentale fosse il migliore anche per loro, non solo per i potenti.<br />Con la caduta del muro di Berlino e la fine del blocco sovietico questa paura è finita. Non c’era più nessun sistema alternativo a cui le classi medio-basse potessero guardare, quindi sono cominciate a cadere le maschere.<br />Chi teneva le redini ha potuto riprendere in mano anche la frusta.<br /><br />Tornando alla sinistra, bisogna comunque pragmaticamente osservare che, per essere credibili, serve anche una politica estera, non solo una politica socio-economica.<br />Ha la sinistra una politica estera? Forse, ma di sicuro non una politica lungimirante. Si affrontano le varie situazioni di volta in volta, quando si presentano. Nessun partito di sinistra (vera o presunta) ha un programma concreto (tranne Tony Blair, il cui programma si può riassumere nella frase “Bush ha sempre ragione”).<br />Una bella analisi (se non una soluzione) ce la offre il sempre lucido ex cancelliere Helmut Schmidt nel suo ultimo libro (“Die Mächte der Zukunft”, Siedler, settembre 2004). Schmidt non parla esplicitamente di politica estera della sinistra, si occupa (apparentemente) della politica dell’Europa, al di là del colore dei governi che la guidano, ma è chiaro a chiunque che sta parlando in primis ai suoi eredi nella SPD e in seconda battuta agli altri partiti socialdemocratici europei.<br />Schmidt non si nasconde le difficoltà concrete dell’Europa, non nega neanche che alcune difficoltà siano indipendenti dalla volontà e dalla debolezza europea, ma indica una strada. Intanto una maggiore integrazione politica, non solo economica, in maniera da poter essere un serio contraltare (e si sottolinei contraltare, non nemico) degli Stati Uniti. E poi il riuscire ad allargare lo sguardo. Smetterla di limitarsi a guardare, come nemici o come amici poco importa, solo agli USA. Non nascondersi l’ascesa anche politica di paesi come la Cina. E capire che il problema demografico del terzo mondo è anche politico, non solo sociale.<br />Non si ferma qui Schmidt. Ma questo può già essere una buona base per una politica estera della sinistra.<br /><br />Una speranza per la sinistra? La sinistra ha bisogno di un programma, non tanto di speranze. Un programma che abbia vista lunga, magari che la faccia passare anche attraverso una sana catarsi.<br />Questi libri possono fornire idee per costruirlo. Basta solo che si abbia il coraggio di pensare non solo alle prossime elezioni, ma che si torni a fare politica. Con la “P” maiuscola.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com5tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1154554932153011522006-08-02T23:27:00.000+02:002007-03-19T09:02:12.126+01:00Esco dal coroQualche giorno fa è stato votato in Parlamento l'<a href="http://www.cittadinolex.kataweb.it/article_view.jsp?idArt=43715&idCat=120">indulto</a>. Di ciò ho già parlato in breve nel mio altro blog (<a href="http://pensieri-eretici.blogspot.com/">Pensieri eretici</a>) e non voglio ritornarvi sopra qui.<br /><br />Però una frase del guardasigilli Mastella mi ha colpito. Quando ha detto che dedica questo evento al ricordo di Wojtyla.<br />Forse sarebbe però il caso di guardare la figura di Wojtyla un po' più in profondità senza fermarsi alla superficie di idolo mediatico delle folle.<br /><br />E al proposito scrissi un articolo per il terzo numero del 2005 di <a href="http://www.rinascita.de/rinascitaFlash.html">Rinascita Flash</a>, a papa appena sepolto e nuovo papa appena eletto.<br /><br />Buona lettura,<br /><br />Mauro.<br /><br />---<br /><br /><span style="font-weight:bold;">Esco dal coro</span><br /><br />È morto il Papa. Viva il Papa.<br /><br />In sostanza possiamo riassumere con queste parole tutto il carnevale mediatico che è andato in scena a Roma nelle ultime settimane.<br />E le urla “Santo, Santo”... e i panegirici sui mezzi di informazione... e la parata di amici e nemici al funerale...<br />Ma è tutto oro quel che luccica?<br />La risposta, per quanto antipatica, è univoca e precisa: No. Anzi, d’oro (a parte il rifiuto delle due guerre del Golfo, spiegabile però come puro atto politico, destinato a rimettere il Vaticano al centro dei giochi diplomatici internazionali, non certo come atto morale) ce ne è ben poco in questo pontificato appena finito e già titolato “epocale”.<br /><br />L’<a href="http://www.corriere.it/Primo_Piano/Documento/2005/03_Marzo/26/index_kung.shtml">analisi</a> più lucida degli atti di Wojtyla è stata operata dal teologo Hans Küng, docente di teologia all’universitá di Tubinga e uno dei protagonisti del Concilio Vaticano II (dove Giovanni XXIII lo chiamò come consulente in materia teologica), pubblicata dal Corriere della Sera lo scorso 26 marzo, quando cioè Wojtyla era ancora in vita.<br />Egli elenca undici punti negativi che fanno del papato appena concluso non il più grande, bensì il più contradditorio (per non dire di peggio) dei tempi recenti. Ma soprattutto fanno di Wojtyla il Papa che ha riportato indietro la Chiesa, fino a prima del Concilio, se non ancora più indietro.<br />Tra questi punti ve ne sono alcuni estremamente forti, che dovrebbero far pensare, ma che sembra comodo dimenticare.<br /><br />Come il celibato dei sacerdoti (tra le altre cose in contrasto con gli insegnamenti originari della Bibbia), che porta al crollo delle vocazioni e indirettamente agli scandali dei preti pedofili. Scandali che la Chiesa ha oltretutto sempre cercato di coprire, senza ne’ affrontare il problema alla radice ne’ punire i colpevoli (caso esemplare l’ex cardinale di Boston, Law, che è stato rimosso dalla diocesi nordamericana per vedersi assegnato un incarico di prestigio a Roma, che lo ha portato a essere uno dei quattro cardinali celebranti le messe in suffragio di Wojtyla).<br /><br />Come il culto di Maria, accompagnato però dalla negazione dei diritti delle donne (e, sia detto per inciso, a mio modestissimo parere questo culto mariano puzza di eresia, in quanto elegge Maria a divinità praticamente pari a Dio, smentendo quindi il monoteismo cristiano).<br /><br />Come la canonizzazione di quantità “industriali” di santi (svilendo quindi l’esempio e l’eccezionalità che dovrebbero essere connessi alla santità), ma soprattutto la canonizzazione di figure per lo meno discutibili, come Pio IX, il papa antisemita, l’imperatore asburgico Carlo I o Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, vicino al franchismo e a tutti gli intrighi finanziari possibili. E contemporaneamente ha cercato, spesso con successo, di mettere a tacere voci critiche e indipendenti all’interno della Chiesa (pensiamo a Eugen Drewermann o al vescovo di Evreux Gaillot).<br /><br />Come le apparenti confessioni dei peccati e degli errori della Chiesa, senza però accompagnarle con parole chiare e con una vera autocritica: ha sempre chiesto perdono per gli errori “dei figli e delle figlie della Chiesa”, ma mai per quelli del Papa, della Chiesa come istituzione o delle sue alte gerarchie. E sempre per errori passati, ormai di interesse solo storico. Mai per gli scandali finanziari (Banca Vaticana, per esempio), per omicidi legati ad affari della Chiesa (Roberto Calvi) o per tutti i già citati scandali legati alla pedofilia.<br /><br />Ma Hans Küng non è solo nella condanna. Più dura ancora è la condanna dei tanti fedeli non acritici, i tanti fedeli che credono in Dio, ma non sono stati soggiogati dal carisma mediatico del papa polacco.<br />Una lettrice del Corriere della Sera si chiede, in una lettera al giornale scritta dopo la morte di Wojtyla: “può essere considerato veramente un Papa al servizio dei poveri e amico dei giovani, un Papa che fino alla fine si è schierato contro ogni apertura verso il moderno, verso la libertà individuale di scelta nell'avere un figlio o non averlo, un Papa che ciecamente non ha voluto riconoscere, nella diffusione del preservativo in Africa, un'arma, forse per ora la sola, contro la diffusione dell'Aids? Non poteva, perché lui rappresentava la Chiesa? Ma chi altri, se non il «capo» della Chiesa terrena, poteva farlo?”.<br /><br />Ma possono milioni di persone, soprattutto milioni di giovani sbagliarsi così radicalmente sulla figura di Wojtyla e chiederne la santificazione immediata?<br />Sì, possono.<br />Non dimentichiamoci che la società attuale è una società mediatica. Le persone vengono giudicate non in base agli atti e alle parole, ma in base al carisma che riescono a trasmettere attraverso i media, tradizionali e non. Non per niente, oggi hanno successo persone come Berlusconi, Blair, Wojtyla, persone che 50 anni fa, senza TV, non avrebbero certo potuto smuovere le masse. Figure che non parlano alla gente, alle persone, ma parlano al pubblico, agli spettatori.<br />E vengono seguiti da folle acritiche, folle che non hanno bisogno di una guida, ma di chi pensi per loro.<br /><br />Come spiegare se no il culto tributato dai giovani al Papa più reazionario (ha rinnegato la collegialità del Papa con i vescovi, sancita dal Concilio Vaticano II, per accentrare tutto il potere in sé, come i papa-re di antica memoria), più antisociale (come si fa condannare la contraccezione in una messa tenuta vicino alle favelas brasiliane?), più egoista (sì anche egoista: miliardi e miliardi buttati in viaggi di cosiddetta evangelizzazione, con costi per il Vaticano e per i paesi ospitanti, spesso poveri, senza mai un atto concreto per alleviare la povertà, la fame, i bisogni di miliardi di persone) del ‘900?<br />Lo si può spiegare appunto solo con l’intellegente sfruttamento della comunicazione, dell’immagine, dei media.<br />Un Papa che fino all’ultimo è riuscito a curare il proprio culto della personalità (di fatto tanto simile a quello dei dittatori nordcoreani), a crogiolarsi nella propria auto-divinizzazione fino quasi a credersi non il rappresentante di Dio, bensì Dio stesso, esibendo la propria morte in pubblico, illudendosi forse di poterla vincere, come fece Cristo.<br /><br />E ci sarebbero ancora tanti esempi che rendono questo Papa perlomeno discutibile.<br /><br />Vorrei chiudere ricordando una foto, un perfetto esempio di questo papato.<br />Wojtyla che si affaccia sul balcone del palazzo presidenziale di Santiago del Cile nel 1987 in compagnia di Augusto Pinochet, al quale strinse la mano e col quale si intrattenne e a cui non chiese conto delle torture, degli omicidi, delle sparizioni avvenute a migliaia sotto la sua dittatura.<br />E prima e dopo questa foto, la lotta senza quartiere contro la Teologia della Liberazione, il movimento che cercava per prima cosa di affrancare gli abitanti delle favelas dalla povertà, vista giustamente come problema più drammatico rispetto al peccato.<br /><br />Amen.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com8tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1154032275774457162006-07-27T22:12:00.000+02:002006-09-29T12:18:19.553+02:00Genova - Famosa e sconosciutaSiamo in estate, in tempo di vacanze, quindi mi permetto oggi di inserire qui un articolo un po' "turistico", invitandovi a usarlo come piccola guida per scoprire o riscoprire la città più bella del mondo: Genova.<br /><br />L'articolo è stato pubblicato sul numero 11 (estate 1999) della rivista studentesca <a href="http://www.onde.de">ONDE</a>.<br /><br />Buona lettura,<br /><br />Mauro.<br /><br />---<br /><br /><span style="font-style:italic;">Una città tra i monti e il mare</span><br /><br /><span style="font-weight:bold;">Genova - Famosa e sconosciuta</span><br /><br /><span style="font-style:italic;">Tutti sanno dove si trova, e molti credono di conoscerla. Sulla sua storia commerciale e militare si è scritto molto. Ma com'è veramente Genova? Cosa si nasconde nel suo cuore? Pochi conoscono i tesori d'arte dei suoi palazzi, quasi nessuno conosce l'atmosfera delle sue strade. Genova non è solo una città, è un mondo.</span><br /><br />Genova. “La Superba” - “Die Stolze”. Alzi la mano chi ha almeno una volta sentito questo nome, chi crede di sapere almeno qualcosa di Genova. Bene, vedo tante mani alzate, ma chi la conosce veramente? Pochi, forse nessuno, per questo oggi vorrei invitarvi a passeggiare con me per le strade di questa illustre sconosciuta.<br /><br />Eccoci allora in Piazza De Ferrari, il cuore geografico (e non solo) della città. Penso che la nostra passeggiata possa partire di qui, dove la Genova degli affari regna e dove la sera si sveglia la Genova dei locali, dei cinema, dei teatri, insomma la Genova del divertimento.<br />Da qui, dalla Genova costruita tra la fine dell’Ottocento e il Ventennio, basta fare pochi passi per raggiungere il vero cuore storico e vitale della città: il centro storico, i <span style="font-style:italic;">carruggi</span>. Questa città vecchia è la più grande d’Europa, un incredibile dedalo di viuzze, alcune strettissime, alcune più larghe, che qua e là si aprono in splendide piazzette e dietro un angolo ospitano squarci di mare mentre dietro il successivo si vedono i monti.<br />E voltando le spalle a Piazza De Ferrari, prima di entrare nel centro storico, troviamo l’imponente Palazzo Ducale, centro di potere civile e militare quando Genova era una repubblica indipendente, oggi uno dei più grandi e affascinanti centri artistico-espositivi d’Italia e sul cui torrione medievale sventola sempre la bandiera genovese (casualmente uguale a quella inglese: croce rossa in campo bianco - forse anche per questo, oltre che per tanti altri motivi, Genova era chiamata la “città più inglese del Mediterraneo”).<br /><br />Nell’intrico di vie della città vecchia, formatosi nel corso di due millenni, si possono trovare alcuni tra i palazzi più belli d’Italia, testimoni dei secoli d’oro della Superba, quando Genova si contendeva con Venezia il dominio del Mediterraneo.<br />Palazzi come Palazzo Spinola di Pellicceria, oggi museo di proprietà dello Stato, mostrano al visitatore imponenti facciate e gli permettono di visitare lussuosissimi interni, spesso (come nel caso dei palazzi di Via Garibaldi) decorati con tele dei più grandi pittori fiamminghi (Rubens o Van Dyck per esempio) e non solo.<br />Anche le chiese della città vecchia sono dei gioielli, come la da poco restaurata San Luca, cappella privata ma aperta al pubblico, con decorazioni barocche splendide e leggere. Oppure San Matteo, chiesa della famiglia Doria, una delle famiglie più potenti (insieme agli Spinola e ai Fieschi) della storia genovese, e circondata dai palazzi dei vari componenti la famiglia, uno dei quali ospita lo studio genovese di Renzo Piano, autore del progetto per la ricostruzione della Potsdamer Platz di Berlino.<br /><br />Ma la città vecchia non è solo monumenti e musei, è anche vita, è anche gente, è questo e tanto altro.<br />Mentre scendiamo da De Ferrari verso l’angiporto sentiamo infatti venirci incontro un mondo intero: non sentiamo più solo l’italiano (o il dialetto) dei genovesi e il giapponese onnipresente dei turisti che vedono tutto attraverso l’obiettivo fotografico e non guardano mai niente coi propri occhi. Cominciamo a sentire l’inglese e il tedesco non solo dei turisti più attenti alla storia, ma anche dei commercianti o degli imprenditori fermatisi qui per fare affari col porto. Cominciamo a sentire l’arabo o lo swahili degli immigrati africani che offrono la loro merce variopinta. Cominciamo a sentire lo spagnolo o l’hindi di marinai di passaggio. Cominciamo a sentire il francese dei pellegrini di Saint Tropez venuti perché a Genova c’è l’unica chiesa al mondo dedicata al santo che dà il nome alla loro città (San Torpete). E mille altre lingue e dialetti presenti per i più svariati motivi.<br /><br />E mentre scendiamo verso il porto, possiamo fare una sosta presso la pasticceria Klainguti (in origine Kleingut, fondata da una famiglia svizzera e costretta a cambiare nome sotto il fascismo - chissà perché però le venne consentito di conservare la “K”, lettera non certo italiana) o presso la dirimpettaia pasticceria Romanengo, le due migliori della città.<br />E scendendo ancora cominciamo a sentire gli odori dei negozi di spezie, provenienti da ogni angolo del mondo. Ecco, in questa via siamo sulla Riviera Ligure, girato l’angolo siamo nell’Arabia profonda e dopo quella piazzetta comincia la Cina dei mille fiori.<br />E, all’improvviso, Piazza Banchi col suo mercato di fiori, verdure e frutta dai mille colori e girato quell’angolo finalmente il mare, il vero re di Genova.<br />Piazza Caricamento, con l’affrescato Palazzo San Giorgio e il porto antico, riportato a splendore nuovo, e antico al tempo stesso, al tempo delle manifestazioni Colombiane del 1992. Perdiamoci a girare per l’Acquario, il più grande d’Europa o per le sale del museo del mare. O, più semplicemente sediamoci a riposare su una panchina e godiamoci il rumore e l’odore del mare. E se siamo d’inverno possiamo anche goderci lo spettacolo della pista per pattinaggio su ghiaccio costruita sul mare.<br /><br />Voltando le spalle al mare vediamo la corona di monti che, imponente, circonda la città. Genova: una città di mare costruita in montagna oppure una città di montagna che giace sul mare. Come preferite.<br />Seguitemi, incamminiamoci su per questi monti, passando vicino al Museo Chiossone (la più importante collezione mondiale di arte e cultura giapponese fuori dal Giappone) e inerpicandoci per le strade che portano al Righi, il primo di questi monti, amato dai genovesi per i panorami che da lì si godono e dalle coppiette per gli angoli romantici che offre.<br />Ma possiamo andare ancora più in alto, raggiungere il Forte Sperone o una delle altre fortezze costruite attorno alla città. Una serie di imponenti costruzioni militari che circondano la città, sistema di difesa secondo solo alla grande muraglia cinese.<br />E da qui il panorama é veramente mozzafiato: ai nostri piedi la città, schiacciata tra mare e monti, col suo porto, i suoi parchi e le sue case strette e alte. Ai lati la Riviera: si può guardare a ovest ben oltre Savona, mentre a est il promontorio di Portofino blocca la visuale. E nelle giornate più limpide, quando il cielo e la luce sono perfetti, si può persino intravedere la Corsica.<br />Siamo quasi a 1000 metri d’altezza, ma la città, che da qui sembra silenziosa, è subito lì sotto: 5 chilometri e siamo in centro o sul mare.<br /><br />Scendiamo di nuovo verso il porto e saliamo su uno dei vaporetti che fanno servizio pubblico.<br />Passiamo sotto la Lanterna, il simbolo della città, un faro unico al mondo per eleganza e bellezza, sfioriamo le navi di ogni tipo e dimensione che entrano e escono dal porto e dirigiamoci verso est.<br />Passiamo così davanti a Boccadasse, angolo idilliaco in mezzo alla città. Fino a meno di due secoli fa era un piccolo borgo di pescatori subito fuori le mura, poi la città crescendo lo ha circondato, lasciandolo però intatto. Oggi la spiaggetta circondata da vecchie case di pescatori affacciate sull’insenatura sembra ancora persa lontano dalla città, che è tutto attorno ma non si vede e non si sente.<br />E arriviamo infine a Nervi, estrema propaggine orientale della città, con la sua passeggiata a mare direttamente sugli scogli, i suoi parchi, il rumore della risacca e i profumi degli oleandri, dei limoni, degli aloe.<br /><br />E ci sarebbe ancora tanto da vedere. L’altra passeggiata a mare, quella di Pegli. I panorami dal Belvedere di Castelletto. Punta Martin, una scheggia di Dolomiti a pochi passi dalla città. Innumerevoli musei e locali caratteristici. E altro ancora.<br />Ma vi ho già fatto camminare abbastanza per oggi, fermiamoci a mangiare un piatto di trenette al pesto accompagnate da un buon Cinque Terre in una delle vecchie trattorie senza lusso, ma con ottima cucina, e poi andiamo a passare la serata in qualche locale o teatro del centro storico. Da dove hanno spiccato il volo la musica di Fabrizio De André, l’ironia di Beppe Grillo, l’arte drammatica di Vittorio Gassman, le visioni di Lele Luzzati. Perché Genova, non dimentichiamolo, é anche fucina teatrale e musicale. Una delle punte di diamante del panorama italiano.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1153248535160979072006-07-18T20:48:00.000+02:002006-07-18T20:48:55.173+02:00PausaIl blog si prende qualche giorno di libertà :-)<br /><br />Ci rileggiamo tra una settimana.<br /><br />Saluti,<br /><br />Mauro.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1152869190333287112006-07-14T11:14:00.000+02:002018-10-21T22:06:23.174+02:00Il Capitale: da Marx a Schröder, da Engels a D’AlemaDa tempo ormai si discute sulla fine del comunismo e su cosa si possa salvare delle idee di Marx nonostante le sue profezie non si siano avverate. Per la precisione dalla caduta del muro di Berlino con il trionfo (o presunto tale) del libero mercato.<br />
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Ma siamo sicuri che le profezie di Marx non si siano avverate? Io non ne sono proprio sicuro, almeno non del tutto.<br />
L'unico problema è che coloro che guidano oggi la sinistra non se ne sono accorti. Sempre che ancora di sinistra si possa parlare.<br />
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Al proposito ho scritto il seguente articolo per il primo numero del 2006 di <a href="http://www.rinascita.de/rinascitaFlash.html">Rinascita Flash</a>.<br />
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Buona lettura,<br />
<br />
Mauro.<br />
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<span style="font-weight: bold;">Il Capitale: da Marx a Schröder, da Engels a D’Alema</span><br />
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Marx aveva ragione.<br />
Proprio ora che il comunismo è crollato, che l’URSS non c’è più e che la Cina si sta aprendo al capitale, veniamo a dire che Marx aveva ragione. Ma se aveva ragione, perché i regimi basati sul suo insegnamento sono crollati?<br />
<br />
Siamo sicuri che detti regimi nascessero dall’insegnamento suo (e di Engels e altri)? O, se veramente così fosse, che tale insegnamento fosse stato capito?<br />
<br />
Cominciamo col ricordare che Marx era un economista e un filosofo, prima che un politico. E la sua analisi spiegava per prima cosa in quali condizioni doveva trovarsi la società per poter dare il via all’instaurazione di un governo comunista. E solo dopo spiegava che tipo di governo avrebbe dovuto essere.<br />
I suoi epigoni nei paesi cosiddetti comunisti hanno, nella migliore delle ipotesi, invertito i termini. Prima hanno instaurato dato governo e poi hanno cercato di far sì che la società arrivasse al punto previsto da Marx.<br />
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Ma oggi, anno 2005, la società (negativa) ipotizzata da Marx come punto ultimo del capitalismo si è realizzata. Anche se tutti gli economisti “moderni” (liberisti compresi) la ritenevano un’esagerazione, essa oggi esiste.<br />
Se questa società sarà anche capace di provocare una reazione che porti all’instaurazione di un vero comunismo o comunque un cambiamento lo vedremo negli anni a venire. E sinceramente (positivo o negativo che sia un tale sviluppo) su questo c’è tutto il motivo di essere scettici, non essendoci partiti in grado di incarnare questa speranza.<br />
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Torniamo ora però all’origine: quale società aveva previsto Marx come apice del capitalismo? Appunto il capitalismo nel senso più puro e verace del termine: una società regolata dal capitale, non dall’uomo, non dall’industria, non dalla produzione, ma dal denaro stesso. Una società dove il denaro non è più il mezzo per ottenere qualcosa, ma dove il denaro è il solo e unico fine, dove il resto è un mezzo per ottenere denaro.<br />
E oggi siamo in questa situazione: la finanza ha soppiantato l’industria. Non solo l’operaio, ma la fabbrica stessa è diventata solo una vacca da mungere nel più breve tempo possibile. Ciò che conta è la rendita, non la produttività. L’operaio, il minatore, il bracciante non sono neanche più uno schiavo per produrre, ma solo voci nella colonna delle spese.<br />
E così si spiega che la Deutsche Bank, per esempio, raggiunge profitti record e subito dopo annuncia di voler tagliare migliaia di posti di lavoro. E questo annuncio fa salire le quotazioni in borsa.<br />
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La forbice tra ricchezza e povertà si allarga sempre di più, e in mezzo rimangono sempre meno persone. I ricchi crescono (poco) di numero e i poveri anche (ma tanto, non poco). Quello che un tempo definivamo ceto medio sta lentamente sparendo.<br />
E non si parla di Cina o India, ma di Italia (leggasi: Dario Di Vico e Emiliano Fittipaldi, “Profondo Italia”, BUR, settembre 2004), Germania (leggasi: Arbeitsgruppe Alternative Wirtschaftspolitik, “Memorandum 2005”, PapyRossa, aprile 2005), Austria (leggasi: Hans Weiss e Ernst Schmiederer, “Asoziale Marktwirtschaft”, Kiepenheuer & Witsch, maggio 2005 - libro che parla anche di Germania, non solo di Austria). E del resto dell’Occidente.<br />
E questa divisione è accompagnata da una sempre minore coscienza sociale delle classi dominanti. Un tempo gli industriali, magari più per lavarsi la coscienza che per vera comprensione e compassione dei problemi degli operai, costruivano ospedali, biblioteche, teatri o altro. Lo facevano anche perché conoscevano le facce dei poveri. La fabbrica era il loro mondo e ciò che vedi colpisce molto di più di ciò che solo leggi o ti viene raccontato.<br />
Oggi non c’è più quell’industriale, c’è il finanziere che vive nel suo ufficio, che non ha mai messo piede in un fabbrica (neanche nell’ovattato ufficio del direttore di stabilimento), che non ha mai visto la faccia di un operaio o di un impiegato.<br />
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L’impersonalità, l’isolamento. O la vergogna, per dirla con Jean Ziegler (“Das Imperium der Schande”, C. Bertelsmann, 2005).<br />
O meglio ancora il male, come aveva già capito decenni fa Bertolt Brecht, il quale disse: "Oggi il male ha un indirizzo. E anche un numero di telefono", pensando alle sedi delle grandi multinazionali.<br />
E dai tempi di Brecht le cose si sono ancora più estremizzate. Basti pensare che oggi le 500 più grandi aziende (e con aziende non intendiamo la fabbrica, la singola marca, ma le holding, le strutture finanziarie) controllano più della metà del prodotto mondiale. E danno lavoro a sempre meno operai e impiegati.<br />
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Siamo appunto arrivati nelle condizioni previste da Marx: il capitale, impersonale, regna. Non il capitalista o l’industriale, ma il capitale stesso.<br />
E questa società capitalista-finanziaria era il punto da cui Marx faceva partire la possibilità di una rivoluzione comunista. Non la società industriale dell’Inghilterra o della Germania dell’800, né tanto meno la società contadina della Russia o della Cina del ‘900.<br />
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Cosa succederà nei prossimi anni? È difficile da prevedere, dato che la variabili in gioco sono tante, ma di sicuro non ci aspettano tempi rosei.<br />
Forse tornerà una coscienza sociale grazie alla sofferenza comune di tanti, forse le grandi aziende metteranno le mani definitivamente anche su eserciti, polizia e simili per non avere più bisogno della struttura stato, forse il capitale crollerà da solo perché senza beni da vendere e comprare... a cosa serve il denaro?<br />
<br />
Di sicuro Marx e Engels avevano visto lontano.<br />
Schröder, D’Alema e gli altri leader della sinistra, col loro piegarsi alle leggi del mercato (cioè del capitale) senza capire che è un vicolo cieco, non vedono altrettanto lontano. E rischiano di tagliare loro stessi le ali al cambiamento che può nascere dalla base, dal popolo.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1151828774353607882006-07-02T10:25:00.000+02:002006-09-29T12:21:02.200+02:00Dittatura culturale? Cultura dittatoriale?Verso la fine del primo governo di centro-sinistra, all'inizio del 2001, si facevano sempre più "tonanti" le lamentele della destra riguardo alla presunta egemonia culturale della sinistra, all'occupazione della cultura e dell'informazione da parte dei "comunisti".<br /><br />Come chiunque può facilmente capire, la realtà era il contrario: la destra (soprattutto quella legata al Vaticano) controllava (e controlla!) informazione e cultura. E io ne scrissi sulla rivista di <a href="http://www.contrasto.de">Contrasto</a> di Amburgo.<br /><br />Oggi, dopo 5 anni di governo Berlusconi la situazione è, se possibile, ulteriormente peggiorata e non so se il nuovo governo di centro-sinistra avrà la forza di cambiare qualcosa.<br />Rispetto a 5 anni fa i nomi di alcuni protagonisti sono cambiati (o hanno cambiato schieramento), ma la sostanza dell'articolo rimane valida, quindi ve lo ripropongo.<br /><br />Soprattutto considerando la (oserei dire profetica) conclusione dell'articolo.<br /><br />Buona lettura,<br /><br />Mauro.<br /><br />---<br /><br /><span style="font-weight:bold;">Dittatura culturale? Cultura dittatoriale?</span><br /><br />In Italia la cultura, l’informazione, l’istruzione sono feudo della sinistra. E perciò false e piene di pregiudizi. Tutto va riscritto, tutto va ripulito. In particolare i libri scolastici, che lavano il cervello ai giovani, impedendogli di formarsi idee proprie, corrette e democratiche.<br /><br />Fantapolitica? Cinema? Satira?<br /><br />No, purtroppo no: è la tesi del presidente della Regione Lazio, Storace, tesi sorretta da un’offensiva senza precedenti della stampa conservatrice, dei partiti di destra e del Vaticano.<br /><br />Allora, la riscossa dell’impero sovietico, delle dittature staliniane sta cominciando dall’Italia?<br />Così sembrerebbe, a leggere i vari Montanelli, Sartori o Galli della Loggia. I guru del giornalismo e della politologia hanno scoperto la causa di tutti i mali del mondo: la sinistra italiana!<br />Cosa c’è di vero in tutto ciò?<br />Il fatto stesso che questi signori scrivano e mentano liberamente sui giornali più in vista e che siano ascoltati dalla stampa e dalla televisione tutta, dimostra l’assurdità dell’assunto. Da sempre è la cultura dominante, di regime che può lamentarsi sui grandi mezzi di informazione di essere combattuta e censurata. La cultura non di regime ha accesso solo a mezzi di informazione minori.<br /><br />Al proposito possiamo anche vedere cosa si sa della storia del dopoguerra.<br /><br />Tutti conoscono l’operato delle Brigate Rosse, ma pochi ricordano Borghese o Di Lorenzo. Eppure i secondi avevano concreti piani per instaurare una dittatura. Le BR no. Pochi ricordano che è stata la stessa sinistra a impedire il successo delle BR, mentre la destra non ha mai cercato di fermare le bande neofasciste degli anni ‘60-’70.<br />Andando più indietro, tutti hanno “imparato” cosa sono le foibe del Carso (dimenticando che vi sono sepolte anche vittime del fascismo), ma San Sabba o Fossoli sono conoscenze di pochi.<br /><br />Allora, cosa succede? Perché la sinistra non reagisce? La destra di fatto domina, perché si lamenta?<br />Lo spazio è troppo poco per un’analisi completa, però...<br /><br />La destra ha vinto la terza guerra mondiale, quella “fredda”, e come sappiamo la storia la scrivono i vincitori, non gli sconfitti.<br />La sinistra non reagisce. Quale sinistra? Quella di governo? Ma quella da tempo non è più sinistra. Che motivo avrebbe di reagire?<br /><br />Perché ora questa offensiva? Il vero obiettivo è la scuola. O meglio: la privatizzazione della scuola. Solo delegittimando ciò che è la scuola pubblica, si riuscirà a svenderla. A chi? Chiedete a Berlusconi e in Vaticano.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1151221807286567852006-06-25T09:32:00.000+02:002006-09-29T19:09:12.020+02:00L'enciclica di RatzingerA gennaio di quest'anno, Ratzinger ha pubblicato la sua prima <a href="http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/encyclicals/documents/hf_ben-xvi_enc_20051225_deus-caritas-est_it.html">enciclica</a>.<br />Al proposito c'era molta curiosità: si voleva capire se e quanto Ratztinger si sarebbe allontanato dall'esempio di Wojtyla.<br /><br />Dato che un evento del genere era anche un'ottima occasione per fare un primo bilancio dell'attività del nuovo papa, mi sono andato a leggere l'enciclica e ne ho scritto sulla rivista <a href="http://www.rinascita.de/rinascitaFlash.html">Rinascita Flash</a>.<br /><br />Buona lettura,<br /><br />Mauro.<br /><br />---<br /><br /><span style="font-weight:bold;">L’enciclica di Ratzinger</span><br /><br />È passato ormai quasi un anno dall’elezione di Joseph Ratzinger al soglio pontificio (era il 19 aprile 2005), e si può quindi tentare di fare un primo bilancio del suo pontificato.<br />A maggior ragione dopo la pubblicazione, il 25 gennaio 2006, della sua prima enciclica (<a href="http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/encyclicals/documents/hf_ben-xvi_enc_20051225_deus-caritas-est_it.html">“Deus Caritas est”</a>, nella traduzione italiana “Dio è amore”).<br /><br />Partiamo proprio dall’enciclica.<br /><br />In tutta sincerità, il giudizio su detta enciclica potrebbe essere molto breve. Basterebbe dire: “Una delusione”. Dal punto di vista laico, ma anche dal punto di vista teologico.<br />Ma perché è una delusione?<br /><br />Il punto centrale attorno a cui ruotano le pagine dell’enciclica (scaricabile, per chi fosse interessato, dal sito <a href="http://www.vatican.va">www.vatican.va</a>) è l’amore di Dio, o meglio il fatto che Dio è l’amore stesso.<br />Questo concetto, per un credente, non è certo una novità e neanche un così astruso da aver bisogno di essere spiegato. Per chi ha fede è una verità semplice e lampante. Oltretutto sono già state scritte in passato pagine splendide sull’argomento, sia da religiosi che da laici, e quasi ogni sacerdote del mondo ha prima o poi tenuto un’omelia sul tema.<br />Perché quindi il papa (o meglio chi scrive per lui – non dimentichiamo che, nonostante le affermazioni contrarie del Vaticano, le encicliche, come i discorsi papali, vengono scritti dalla segreteria del papa e questi fornisce al massimo delle linee guida per la scrittura oltra ad apporre alla fine sigillo e firma) ritiene di dovervi dedicare addirittura un’enciclica?<br />Il commento ironico che potrebbe venire spontaneo, e cioè che fosse a corto di argomenti, non regge. Le encicliche non hanno scadenze obbligatorie, quindi se un papa non ha nulla da dire, o non vuole esprimersi, è sufficiente non scrivere. Nessuno lo condannerebbe.<br /><br />Quindi Ratzinger aveva qualcosa da dire. Cosa?<br />Il senso vero dell’enciclica lo si legge tra le righe, come spesso nei documenti vaticani, però è evidente, quasi esplicito.<br />L’enciclica è un ribadire la linea dura del Vaticano sui temi matrimoniali, sessuali e simili.<br />La prima parte comincia con una specie di studio semantico della parola “amore”. Cita le tre varianti greche del vocabolo (“eros”, “philia” e “agape”), spiegando come la Bibbia prediliga la terza a scapito soprattutto dell’”eros”. E questo già ci dice chiaramente in che direzione vuole andare.<br />L’apertura del discorso sulle differenze tra “eros” e “agape” (la “philia”, cioè l’amore inteso in senso di amicizia, sembra interessare poco a Ratzinger) è tutta un programma: «All’amore tra uomo e donna, che non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo s’impone all’essere umano». E così tutti i rapporti che non rientrano nel classico concetto matrimoniale vaticano sono sistemati. Non serve neanche condannarli perché in realtà neanche esistono, sono forzature che gli esseri umani in realtà neanche vogliono.<br />Ancora più interessante è la conta di quante volte la parole “eros” è presente nella Bibbia: solo due volte nell’antico testamento e nessuna nel nuovo. Come dire: l’amore non erotico è meglio.<br />Ratzinger dimentica però che l’antico testamento è stato scritto originariamente in gran parte non in greco e che la traduzione greca è già di epoca cristiana. Il papa ha contato la parola sbagliata. Perché non ci dice come erano scritti gli originali aramaici, per esempio? Perché non si preoccupa neanche di dire che lui non ha preso in considerazione l’origine prima dei testi?<br /><br />Passato questo primo scoglio si prosegue nella lettura e si scopre il nulla. La prima parte è un “taglia e cuci” di citazioni storiche e letterarie senza nulla di concreto, con l’unico scopo prima di confutare l’affermazione freudiana (in realtà corretta, per quanto un po’ estremizzata) secondo cui il cristianesimo ha ucciso l’eros e poi di dimostrare che di qualsiasi tipo di amore si parli esso tende alla fine per forza a Dio.<br />Scopi entrambi falliti, almeno nell’enciclica, in quanto inseguiti con affermazioni e non con dimostrazioni (e poi, sinceramente, a copiare passi dei profeti e dei vangeli basta un copista, non serve un papa).<br /><br />Nella seconda parte dell’enciclica entra in gioco esplicitamente la chiesa, quale “comunità d’amore”.<br />A parte il fatto che sulla chiesa si potrebbe dire di tutto, tranne che sia una comunità d’amore (chiedere, per esempio, conferma agli indios dell’America latina o alle vittime dell’Inquisizione), le pagine che compongono questa parte sono una deludentissima rimasticatura di scritti dei papati precedenti e, forse soprattutto, della CEI.<br />Non vale quindi la pena di analizzare in dettaglio la cosa, a parte un ben preciso punto, il punto 28, che tocca il rapporto tra Stato e chiesa.<br /><br />Si comincia con «Il giusto ordine della società e dello Stato è compito della politica». Giusto, ineccepibile. Quindi sarebbe il caso di far sapere a Ruini (che detta le linee guida al governo italiano) e a Berlusconi (che finanzia le scuole cattoliche togliendo fondi a quelle pubbliche) che la chiesa si occupa di religione e lo Stato di politica. Non viceversa.<br />Verrebbe quasi da chiedersi se Ratzinger è a conoscenza delle ingerenze continue e profonde della chiesa nella politica italiana o se invece viva su una nuvoletta dove non gli arriva notizia di nulla.<br />La frase «Alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, cioè la distinzione tra Stato e Chiesa» appare sinceramente come uno scherzo di cattivo gusto, alla luce del comportamento del Vaticano in occasione degli ultimi referenda e delle continue esternazioni di Ruini in campo politico.<br />Però più avanti Ratzinger getta la maschera, quando parla della necessità della politica di adoperarsi per la giustizia, il che sarebbe anche giusto e condivisibile se non aggiungesse «In questo punto politica e fede si toccano». Insomma, la quadratura del cerchio: la chiesa non deve fare politica, ma la politica deve basarsi sulla fede.<br />Dobbiamo forse escludere atei, agnostici e simili dall’esercizio della politica?<br /><br />L’enciclica prosegue con la descrizione dell’impegno della Chiesa per la giustizia e la carità. Tutto sommato, una raccolta di banalità leggibili su qualsiasi bollettino parocchiale del mondo.<br /><br />La delusione più grossa, arrivati alla fine della lettura, non è comunque politica o religiosa, ma culturale.<br />Da una persone con gli studi e il passato di Ratzinger ci si sarebbe aspettato qualcosa di più profondo, di più articolato (al di là del condivisibile o meno), non una raccolta di banalitá che non dicono quasi nulla (e quel poco che dicono non è comunque nuovo).<br />Troppe citazioni e troppo pochi pensieri.<br />Ma forse, guardando il passato recente di Ratzinger, meglio così.<br /><br />Sul giudizio di questo quasi primo anno di papato pesano negativamente anche altri fatti, non solo l’enciclica.<br />Per ragioni di spazio mi limiterò qui a un brevissimo panorama, rinviando un esame più dettagliato al futuro, se se ne dovesse presentare l’occasione.<br /><br />Dell’ingerenza nella politica italiana si è detto sopra.<br />Riguardo al campo sociale questo papato conferma tutte le chiusure del papato precedente, con particolare riguardo a temi come aborto ed eutanasia, dove forse si sta confermando ancora più duro nei fatti di Wojtyla, pur usando parole più morbide.<br />Nell’orientamento generale del governo della chiesa si orienta al passato più remoto, alla chiesa antecedente alla prima scissione (quindi prima del 1054), cioè alla chiesa depositaria dell’unica assoluta verità. Non solo celeste, ma anche terrena.<br /><br />E, a dimostrazione di quanto il Vaticano tenga in considerazione il dialogo interconfessionale, ha ricevuto e lodato in udienza privata il 26 agosto 2005 la cristianissima Oriana Fallaci, cultrice dell’odio contro l’Islam e della superiorità della cultura cristiana.<br /><br />Unico segnale positivo per ora è l’apertura a un certo dialogo con coloro che un tempo sarebbero stati giudicati eretici, come il teologo Hans Küng o il vescovo scomunicato Bernard Fellay.<br /><br />Sinceramente, un po’ poco.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1150876454375737112006-06-21T09:46:00.000+02:002022-01-21T20:12:53.428+01:00Un calcio al calcioIn questi giorni il calcio sta dominando la stampa: da una parte i campionati del mondo in Germania, dall'altra lo scandalo "Juventus" in Italia.
Perciò mi pare giusto cominciare con un articolo pubblicato ormai un po' di anni fa sulla pagina web di un gruppo un po' particolare di tifosi del Genoa, i <a href="http://www.druidi.it">Druidi</a>, e ripubblicato in versione bilingue (italiano e tedesco) nel 2005 sulla rivista <a href="http://der-toedliche-pass.de/">Der tödliche Pass</a>.
Buona lettura,
Mauro.
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<span style="font-weight: bold;">Un calcio al calcio</span>
<span style="font-style: italic;">Quali sono le vere cause della crisi?</span>
Il calcio sta scoppiando. Così tutti ci dicono. Ma non diciamo cazzate!
Parole, parole, parole.
Semmai il calcio si purgherà e tornerà a essere quello che era e che dovrebbe essere, quello vero: un gioco, uno svago, uno sport.
Quando il bubbone scoppierà, gli idoli torneranno a essere uomini, i risultati torneranno a essere sportivi, i telespettatori torneranno a essere spettatori.
Ma per far sì che tutto ciò si realizzi dovranno accadere due cose:
- il calcio deve smettere di essere finanziariamente e penalmente una zona franca;
- i veri colpevoli della degenerazione (e vi sorprenderà scoprire chi sono) devono aprire gli occhi.
Il primo punto però ha come imprescindibile condizione, per poter essere realizzato, l’avverarsi del secondo punto. Serve una totale, crudele e spietata presa di coscienza, da parte dei colpevoli, del vuoto e dell’inumanità in cui si sono calati.
Cerchiamoli questi colpevoli, allora.
Sono i calciatori?
In effetti, hanno pretese assurde, vogliono guadagnare più di un industriale senza però correre i suoi rischi. Sono diventati viziati e prepotenti, si credono al disopra dei comuni mortali.
Sono presidenti e dirigenti?
In effetti, hanno lucrato sul calcio, hanno approfittato dello sport per lavare soldi, per farsi pubblicità, per instaurare contatti politici e per conquistare spazi che senza la scorciatoia calcio non avrebbero avuto.
Sono i giornalisti?
In effetti, con la loro caccia al lettore e all’audience non fanno altro che gettare benzina sul fuoco. Solleticano i bassi istinti del popolino, magari anche con l’obiettivo di ingraziarsi il potente calcio-politicante di turno.
Sono i politici?
In effetti, il calcio, lo sport più amato dagli italiani, è per loro un ottimo strumento per la conquista del consenso e per l’anestetizzazione dei cervelli. Il calcio oppio dei popoli, per parafrasare Marx. “Panem et circenses”, ma almeno ai romani si dava anche il panem…
Voi chi scegliete come categoria colpevole?
La prima? Ragazzetti in mutande che corrono dietro a una palla e poi si atteggiano a divi, possedendo la cultura di un’ameba?
La seconda? Imprenditori “seri” che sembrano lobotomizzati quando si danno al calcio e buttano i soldi dalla finestra?
La terza? Giornalisti impegnati a dimostrarci che i grandi problemi non sono fame e guerre, ma calcio e calci?
La quarta? Politici che lottano contro la disoccupazione dei calciatori, tanto gli operai chi sono?
Io vi porgo allora una quinta domanda: chi permette a quelle categorie di fare ciò che fanno, impunemente?
Sì, giusto, vedo che avete capito: i tifosi. I primi colpevoli, anche se (forse) inconsapevoli sono loro.
Mettano la testa a posto (e non mi riferisco alla violenza negli stadi, quella c’è anche fuori, solo che fuori non ci sono le telecamere), si facciano in blocco un serio e completo esame di coscienza e vedrete che le altre categorie saranno volenti o nolenti costrette a seguire.
Chi è che da modo al calciatore di credersi divino urlandogli “Sei un dio!”?
Chi è che permette al presidente buttare soldi che servirebbero ad aziende vere sostenendo che è il tifoso il vero padrone?
Chi è che “paga” lo stipendio al giornalista comprando i quotidiani sportivi e guardando trasmissioni imbecilli?
Chi è che vota il politico che si impegna per lo “sport”, cioè per l’assurdo baraccone oppiaceo del calcio?
Sempre lo stesso imbecille: il tifoso!
Piantiamola una buona volta! Rimettiamo la testa a posto e ragioniamo!
Il calciatore non è un dio, è un uomo che fa un lavoro come un altro. Anzi molto meno pericoloso e produttivo di un altro. Se Totti è un dio, allora Umberto Veronesi chi è? Se Del Piero è celestiale, allora Francesco Saverio Borrelli cosa è? Certo, un Silvio Garattini si limita a salvare una vita per volta, Baggio delizia quarantamila cretini a botta… una differenza non da poco, vero? Svegliatevi, fate gli striscioni per chi fa qualcosa di serio e non per chi gioca invece che lavorare!
A chi appartiene la squadra? Ai tifosi, dato che sono loro a pagare il biglietto allo stadio? Cosa, come, ho sentito bene? Allora, dato che io ho comprato una cucina a gas Siemens, sono diventato padrone dell’azienda Siemens, giusto? Ma andate a… La squadra appartiene a chi ha comprato le azioni e il giorno che il tifoso riconoscerà questa semplice verità, allora il padrone sarà costretto a comportarsi con la gestione come si comporta con la gestione di qualsiasi altro tipo di azienda.
La moviola è importante, vero? Le dotte dissertazioni di scribacchini e biscardosauri decidono giustamente delle sorti della politica interna ed estera. Vuoi mettere l’importanza del capire se il fallo era dentro o fuori del cerchio di centrocampo? E di quello che c’è dentro il cerchio della scatola cranica ce ne siamo dimenticati? Al telegiornale mezz’ora per il tuffo in area di Pippo la pippa e tre minuti per lo sciopero di mille operai che rischiano di finire in mezzo alla strada con tutte le loro famiglie? E allora cambiate telegiornale, guardatene uno più serio, deficienti!
Il politico fa le leggi a favore del calcio, giusto, sacrosanto, bisogna salvare ciò che al popolo piace… cosa piace al popolo? Il calcio? E allora che c’entrano questa serie A e questa serie B? Dov’è il calcio? Comunque è giusto, Galliani e Sensi devono poter rimanere in sella, vorreste mica vedere personcine così per bene disoccupate? Cari tifosi della Fiorentina o della Florentia Viola… per Rui Costa e Di Livio siete scesi in piazza, ma dove eravate quando hanno rischiato di chiudere la Nuovo Pignone e le Officine Galileo? Perché non avete inneggiato a Giuseppe Montale, operaio, 45 anni, 1200 euro al mese, 2 figli e nessun futuro lavorativo perché troppo vecchio?
Cari tifosi, fate schifo.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-29941305.post-1150755474617297382006-06-20T00:14:00.000+02:002007-01-31T04:38:58.203+01:00E siccome un blog non mi bastava......ne ho pensato un altro, nel quale pian piano vi propinerò tutti gli articoli di stampo giornalistico, anche quelli per un motivo o per l'altro non pubblicati, della mia ormai lunga carriera di giornalista amatoriale ;-)<br /><br />In alcuni articoli dovrò aggiungere delle appendici che spieghino eventualmente i fatti relativi al tema dell'articolo, ma avvenuti dopo la stesura dell'articolo stesso.<br /><br />In effetti, a pensarci bene, questo più che un blog, potrebbe benissimo essere considerato una raccolta, una specie di libro in rete...<br /><br />E magari i vostri (graditi e attesi, sia negativi che positivi) commenti forniranno materiali per altri nuovi articoli. Perché no? :-)<br /><br />State pronti a leggere di tutto.<br /><br />Saluti,<br /><br />Mauro.Maurohttp://www.blogger.com/profile/04009381733597723560noreply@blogger.com0