31.10.06

Mafia, Mafien... oder? - versione integrale

Il 6 ottobre scorso pubblicai qui sopra il mio articolo Mafia, Mafien... oder?, come apparso nel 2001 su Contrasto.

Scrissi che la versione pubblicata era stata depurata per sicurezza di alcuni passaggi. Qui vi presento la versione integrale, mai pubblicata.

Buona lettura,

Mauro.

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Gibt es Mafia auch in Deutschland oder nicht?

Mafia, Mafien... oder?

Oft haben wir gehört, dass mit den italienischen Emigranten auch die Mafia in Deutschland gekommen ist, aber dass diese Mafia in den italienischen Kreise geblieben ist. Ist das wahr? Nicht ganz: die Mafia ist wirklich hier angekommen, aber die Geschichte ist ein bißchen anders.

Qualche tempo fa, parlando con un avvocato qui in Germania, scoprii qualcosa tutto sommato non assurdo, ma che mi stupì non poco: due cittadine tedesche (Kempten e Münster) possono essere considerate come un “buen retiro” della mafia. Due luoghi dove i mafiosi che vogliono ritirarsi dagli “affari”, ma senza tradire, vanno a godersi la pensione. Due luoghi in cui, senza problemi, possono fare i pensionati.
Ma perché proprio la Germania? Perché proprio queste due località?
La Germania non è certo famosa per la tolleranza verso le attività illegali, non è un paradiso fiscale, ha legami con l’Italia abbastanza forti da poter permettere agli inquirenti italiani di venire qui a chiedere alle autorità tedesche di darsi da fare (e viceversa). Quindi, sembrerebbe l’ultimo paese in cui un mafioso possa sentirsi sicuro. Eppure...

In effetti non è difficile capire l’importanza di città quali Münster e Kempten: cittadine tranquille, dove (non solo per i cittadini, ma anche per le autorità) il quieto vivere è più importante della giustizia e quindi dove si possono fare i propri affari senza problemi, fino a che non si disturbano gli altri. Cittadine ricche, e quindi dove un afflusso ulteriore di denaro non fa notizia, e soprattutto cittadine in posizioni strategiche. Münster, apparentemente isolata, ma ben collegata a centri finanziari quali Francoforte, Colonia, Londra e Amsterdam. Kempten, apparentemente ancora più isolata, ma vicina alla Svizzera (la grande “lavatrice” di tutti i capitali mafiosi) e non troppo lontana dall’Italia.
Per di più cittadine di un paese dove le leggi e le autorità sono sì severe, ma fino a poco tempo fa non abituate alla criminalità organizzata di stampo mafioso, quindi su certi argomenti “ingenue”.

Ma la Germania non è solo un luogo di pensionamento per mafiosi, se così fosse tanto l’Italia quanto la Germania potrebbero permettersi sonni più tranquilli.
Il legame tra la mafia e la Germania è molto più articolato e ha avuto origine in maniera sistematica negli anni ‘70, una volta finita l’ondata dei “Gastarbeiter”, con una vera e propria esplosione dopo il 1989, dopo la caduta del muro di Berlino.

Tutto sommato non è una sorpresa: la Germania è il cuore economico-finanziario d’Europa, quindi ogni tipo di commercio o attività finanziaria, legale o illegale, non può prescindere da questo paese. Per di più, dopo la caduta del muro e l’unificazione, essa è diventata la porta d’accesso privilegiata verso l’ex blocco sovietico, mercato vastissimo e non limitato da quelle regole che stanno frenando fortemente l’attività mafiosa all’interno della comunità europea.
A dimostrazione di questa centralità tedesca sta il fatto che recenti indagini (riportate in un reportage dal “Corriere della Sera”) hanno mostrato come un’organizzazione criminale molto meno organizzata e più “antiquata” della classica mafia, e cioè la ‘ndrangheta calabrese, investe in Germania la maggior parte dei propri guadagni.

Nel 1998, “Die Welt”, riportando dichiarazioni e rapporti dell’unità investigativa antimafia bavarese e del Bundeskriminalamt, tracciò un quadro sommario, ma interessante, delle attività mafiose in Germania.
Secondo tale rapporto, le organizzazioni criminali italiane stanno sempre più trasferendo attività oltralpe e la Germania non è più solo zona di “pensione” o di parcheggio per killers, ma si sta sempre più trasformando in territorio operativo, con sempre maggiore indipendenza dalle centrali in territorio italiano. Le principali attività in territorio tedesco sarebbero il traffico di droga e armi, affiancate dal traffico di schiavi (prostituzione, lavoro nero, ecc.), dalla produzione di denaro falso, ma soprattutto il riciclaggio di denaro sporco, con investimenti spesso legali.
La mafia “tedesca”, ovviamente, ha sviluppato un comportamento diverso nei confronti del territorio rispetto alle origini italiane. Il vero e proprio controllo del territorio, sovrapponendosi allo stato, qui non esiste, in parte per la capacità dello stato stesso di opporvisi e in parte (forse soprattutto) per la terribile concorrenza delle mafie russa e turca, stabilitesi qui da anni. Le famiglie presenti in Germania fanno di tutto per mantenere un basso profilo, per non apparire, e ciò con lo scopo di poter lavorare indisturbate.

Del resto questo abbandono del controllo del territorio a favore di una finanziarizzazione delle attività sta procedendo anche in Italia. Ed è credibile che ciò non sia dovuto solo ai successi ottenuti dalle autorità italiane nella lotta contro la criminalità, ma che le conquiste economiche operate dalla mafia in paesi come la Germania e i Paesi Bassi possano essere servite da esempio.
Per questo, lo stesso ministro Schilly ha dichiarato che la mafia non può essere combattuta dai singoli stati, ma solo dall’azione congiunta di essi e abbandonando le tecniche classiche a favore di investigazioni bancarie e fiscali (quasi seguendo l’esempio di ciò che fecero gli Stati Uniti per colpire Al Capone).

Qualcosa di più preciso su ciò che è la Germania per la mafia può essere scoperto leggendo le trascrizioni delle sedute della Commissione Antimafia del Parlamento italiano.
In tali sedute sono stati interrogati pentiti di mafia i quali hanno chiarito molti punti oscuri o addirittura sconosciuti di tale rapporto.

Elemento molto interessante è il modo in cui la mafia si rifornisce di armi.
Si è sempre detto che l’acquisto di armi avvenisse generalmente in Svizzera oppure nelle zone “calde” del globo, dove a causa di guerre le armi circolano quasi liberamente. Questo era vero fino a qualche tempo fa.
Dichiarazioni del pentito Leonardo Messina hanno messo a nudo una nuova strada per ottenere le armi, strada percorsa in Belgio e Germania. Qui, dai centri NATO, escono armi e materiali di ogni tipo che prendono la strada degli arsenali mafiosi, anche sfruttando l’apertura delle frontiere. Tali armi riescono a uscire dalle basi un po’ grazie alla corruzione dei militari e in parte grazie al maggiore lassismo nella sorveglianza che si ha dalla fine della guerra fredda. Spesso sono elementi della criminalità comune, non direttamente legati alla mafia, a portare fuori le armi e poi le “decine” (cioè le “filiali”) delle varie famiglie in Germania (in particolare nella zona di Mannheim) si occupano dell’acquisto e della distribuzione.

Le stesse decine si occupano poi del già citato riciclaggio. I personaggi più importanti, tramite prestanome, possiedono grosse imprese, in particolare nel settore movimento terra, nel calcestruzzo e nell’import/export (dove vengono operati i maggiori investimenti e con il quale spesso si riesce a far passare il riciclaggio, quando le cose vanno male, come “semplice” elusione o evasione fiscale).

Il cittadino tedesco però raramente è in grado di rendersi conto di questo intreccio di interessi sporchi e dell’avanzata della mafia in Germania.
Non è in grado di accorgersene in parte per la mancanza di strumenti culturali adeguati (fino a una ventina di anni fa le mafie erano fenomeni geograficamente circoscritti) e in parte per la capacità della mafia di nascondersi.
E non aiuta il fatto che spesso il giornalismo si sofferma sul lato romantico (il senso dell’onore e dell’appartenenza) o su quello brutale (la violenza, i fatti di sangue) della mafia. Due lati che nella realtà tedesca sono quasi assenti, ma che fanno vendere i giornali e riempire le sale dei cinema.
Il cittadino tedesco gradisce, eccome, questo tipo di descrizioni. Ciò è testimoniato anche dal successo avuto recentemente da un disco contenente le canzoni della ‘ndrangheta, canzoni che parlano di onore, avventura, vendette, violenza. Disco pubblicato proprio in Germania e che in Italia non avrebbe avuto altrettanto successo.

I tedeschi sono comunque in buona compagnia: anche in Italia si comincia a credere che la mafia sia finita. E la si cerca nei cinema.

Omaggio a Fabrizio De André - versione lunga

L'ultimo articolo da me inserito nel blog era un ricordo di De André (Omaggio a Fabrizio De André), pubblicato su Contrasto.

Come scrissi si trattava di una versione ridotta per la stampa e che la versione integrale venne pubblicata solo sul web.

Qui vi riporto la versione integrale.
Avendo Contrasto buona parte dei lettori tedeschi, è stato necessario inserire alcune note che per la maggioranza degli italiani sono inutili, ma che qui per completezza ho lasciato.

Buona lettura,

Mauro.

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Fabrizio De André, l’ultimo poeta ribelle

L’11 Gennaio è morto a Milano il cantautore genovese, ucciso da un tumore

Fabrizio De André si è spento alle 2.30 di mattina dell’11 Gennaio scorso, stroncato, a soli 58 anni, da un tumore. Era già ricoverato da tempo all’Istituto dei Tumori di Milano, ma la notizia ha comunque sconvolto il mondo musicale e culturale italiano e soprattutto gli innumerevoli appassionati del cantautore. Il 13 Gennaio si è tenuto a Genova, nella centralissima Basilica di Carignano, il funerale. Rigorosamente pubblico, perché, come hanno detto i famigliari dell’artista, “Fabrizio appartiene non solo alla famiglia, ma a tutti quelli che lo hanno amato”.
Per tutta la giornata, il comune di Genova ha diffuso, tramite altoparlanti appositamente sistemati, lungo Via Garibaldi (dove é sito il municipio) le sue canzoni nel cielo della città. Mentre, dal piazzale davanti alla Basilica, la folla accorsa ai funerali poteva ammirare dall’alto il panorama dei “carruggi” (1), gli stretti vicoli del centro storico genovese tanto amati dal cantautore e dai lui resi famosi con molte canzoni, soprattutto con la ballata “Via del Campo”.
Al capezzale del cantautore, al momento del decesso, c’erano la moglie, Dori Ghezzi, e i figli, Cristiano e Luvi. “Papà è morto serenamente, gli eravamo accanto, gli stringevamo le mani”, ha detto Cristiano, da anni musicista come il padre e spesso suo collaboratore dal vivo e in studio. Lui, come il resto della famiglia, era riuscito a mantenere uno stretto riserbo sulla malattia di Fabrizio, ma da diverse settimane la voce che il cantautore fosse seriamente malato si era comunque diffusa, soprattutto nel mondo musicale. In autunno lo stesso cantante aveva pubblicamente annunciato la rinuncia a una serie di concerti, in quanto affetto da più di un’ernia del disco. Ernia che era stata scoperta a fine estate e che in realtà era un tumore.
Tumore da De André affrontato con coraggio. Fino quasi a convincere gli stessi medici (e di sicuro Dori) che ce l’avrebbe fatta. Non é stato così e purtroppo la malattia gli ha impedito di morire nella sua amatissima e solare Genova, confinandolo in una nebbiosa Milano.
Ma forse, il titolo del suo ultimo album, al passato (“M’innamoravo di tutto”) era già un commiato (consapevole?) da tutti i suoi fans, da tutti coloro che lo amavano.

De André era nato a Genova, nel ricco quartiere della Foce il 18 Febbraio del 1940. Figlio della borghesia agiata, è stato uno studente pigro fermatosi a pochi esami dalla laurea in legge, e ha avuto tra gli amici di sempre Paolo Villaggio (2), Luigi Tenco (3), Gino Paoli (4).
Fin da adolescente mostra insofferenza verso quella stessa borghesia genovese da cui viene e che, almeno in parte, frequenta. Preferisce infatti frequentare la Genova d’angiporto (5), quella dei bordelli, dei pittori, dei tiratardi e i circoli anarchici di Genova e Carrara (6). Alla laurea, come detto, non arriva mai. Non arriva perché allo studio dei codici antepone altre letture, divorando i classici della letteratura russa e francese e poi (soprattutto) i pensatori anarchici: Bakunin, Malatesta, Stirner. E comincia con una chitarra a raccontare le sue storie e i suoi personaggi che non hanno nulla di convenzionale. Sono emarginati, perdenti, reietti, puttane, drogati che De André nobilita sempre con il filtro della pietà, mentre a sbirri (7), giudici e preti non risparmia gli strali del sarcasmo corrosivo.
Bisogna sottolineare che, in effetti, la frattura con le sue origini familiari, con la cerchia sociale a cui sembrava destinato, era più di natura esistenziale che politica. La sua pigrizia (non per nulla Oblomov (8) era dei uno suoi eroi letterari) e il suo disprezzo per l’efficientismo lo allontanavano da ogni responsabilità di censo, e soprattutto da suo padre, “super” manager di una delle aziende genovesi importanti nel mondo, padre con cui manterrà sempre un rapporto di odio-amore, rafforzatosi in entrambi i poli - quello negativo e quello positivo - ai tempi del rapimento.

De André si sentiva profondamente mediterraneo, quasi un arabo di Genova, lontano dall’anglofilia di tanta nostra musica, e in quello che ormai é considerato il suo capolavoro (“Creuza de mä”, in lingua genovese) era approdato a un mondo sonoro gravido di spazio, di lentezza, di lontananza dalla frenesia malata, ridicola, spietata del nostro tempo. Un mondo sonoro che ritraeva perfettamente il carattere del Mare Nostrum (9).
Ha scritto poco relativamente ai ritmi discografici, moltissimo in rapporto alla propria indole. La qualità, rarefatta nel tempo (un disco ogni lustro negli ultimi tempi). é sempre rimasta altissima e, cosa rarissima nel mondo dell’arte, ha probabilmente raggiunto i suoi vertici proprio con le opere tarde, soprattutto “Creuza de mä” e “Le nuvole”.

Fin dagli anni Sessanta noi tutti da ragazzi ci siamo innamorati dei suoi eroi malvisti, derelitti, risplendenti di solitudine. E la forza delle sue parole, che rendevano reale la vaga idea che il mondo fosse ingiusto e ottuso, era una ferita, una ferita nell’animo. Quelle stesse parole erano la conferma dell’intuizione che l’arte e la poesia potessero essere la più radicale delle rivolte.
Intuizione che, con il crescere, diventava un ricordo, quasi un peccato di gioventù, da nascondere conformandosi alle masse. Nei nostri animi si cicatrizzava. Nei nostri, ma non in quello di Fabrizio che continuava, anno dopo anno, disco dopo disco, a diffondere il suo credo anarchico e pacifista, a fare nuovi proseliti.
Ma non dobbiamo dimenticare che, nonostante il suo pacifismo (immortale rimarrà l’immagine del soldato, che preferisce morire piuttosto che sparare, nella “Guerra di Piero”), le sue canzoni non erano per nulla incruente. Anzi, erano violente, durissime, facevano male. Il suo pensiero era animoso, duro fino all’acredine nella rappresentazione del potere, fortemente incline all’invettiva. E certamente nessuno dei cantautori italiani (tranne forse, con uno stile molto diverso, il Roberto Vecchioni (10) degli anni ‘70) ha saputo cantare così civilmente l’odio per l’inciviltà dei tempi e dell’uomo in generale. Anarchicamente, detestava le maggioranze e la loro forza conformistica, capace di anestetizzare i sentimenti. Ma, invece di ‘incazzarsi’ (11) e lasciarsi prendere dalla rabbia e dall’impotenza, lasciava scatenare la sua potenza narrativa, la sua anima poetica.
Un altro, probabilmente, avrebbe finito per cadere nella trappola del terrorismo, delle bombe vere (come il suo “Bombarolo”). Le sue bombe invece erano canzoni: con esse, faceva esplodere le contraddizioni del proprio tempo, ne metteva a nudo le menzogne e le ipocrisie. Il linguaggio come arma, quasi sulle tracce di Pasolini.

Proprio Villaggio, uno degli amici d’infanzia, lo ricorda in maniera scarna, ma profonda, quasi volesse sottrarsi alla retorica che circonda la morte dei personaggi celebri: “Era intelligente, geniale, allegro, spiritoso, squinternato, un po’ vanitoso, snob: non era triste, come voleva l’immagine pubblica che gli avevano dipinto addosso; era un anarchico, grande poeta”.
Crescendo, l’amicizia d’infanzia s’era consolidata anche in virtù di una comunanza ideale e caratteriale. “Avevamo caratteri simili”, prosegue Villaggio, “eravamo tutti e due squinternati, entrambi pecore nere delle rispettive famiglie. Abbiamo cominciato insieme a lavorare facendo intrattenimento sulle navi della Costa Crociere. Negli anni non abbiamo mai smesso di vederci.”
Senza parole sono rimasti i componenti della Premiata Forneria Marconi, che con De André avevano suonato in una celebre, quasi leggendaria, tournée alla fine degli anni ‘70. “Una perdita dura, durissima”, riesce solo a dire Franz Di Cioccio.
“Un grande poeta ci ha lasciato. Siamo tutti più tristi” sono le parole con cui Beppe Carletti, leader dei Nomadi, ricorda De André. “Non conoscevo benissimo De André, ma ho suonato tantissime volte le sue canzoni” spiega Carletti. “Lui era un grande, uno che non metteva mai in fila le cose: quello che aveva da dire lo diceva. Con Guccini, è stato il più grande della sua generazione”.
E, per ripetere le parole con cui Michele Serra (12) lo ha ricordato su “Repubblica”, “aveva un bellissimo viso da signore, ancora ben intuibile dietro gli sfregi lividi dell’alcol, come in un ritratto di Bacon. Aveva una bellissima voce da uomo, profonda e fedele alle parole che pronunciava, levigata negli anni da un fiume di sigarette. E aveva un bellissimo cuore, il cuore dei grandi poeti, aperto al cielo, alle nuvole, alle donne che amano, ai soldati che muoiono, ai potenti che comprano, ai delinquenti che pagano”.

Ma come nasce il cantautore De André?
Nel suo apprendistato alla musica, sul versante del jazz, incrocia spesso al Roby Bar (storico luogo di incontro dei giovani musicisti genovesi) Luigi Tenco che suona il sax e al cui gruppo si unisce. Poi passa in una formazione amatoriale di country, decidendosi infine a definire un proprio stile di cantautore scabro, crudo e pungente - ispirato ai transalpini (13) Brassens e Brel - colpendo immediatamente per i suoi toni vocali gravi, melodicissimi. La prima incisione é del ‘58: il 45 giri “Nuvole barocche”, pezzo scritto da altri che passa inosservato. Intanto si sposa e, a soli 23 anni, é già padre di Cristiano.
Il brano che gli cambia la vita é “La canzone di Marinella”, interpretata da Mina nel ‘65, che diventa subito un successo. Il debutto come cantautore avviene tre anni più tardi con l’album “Fabrizio De André vol. 1”, che già contiene brani destinati a essere classici, come “Bocca di rosa” (ispirata a una figura reale, Maritza, prostituta slava che iniziò al sesso tanti giovani della Genova anni ‘60), “Via del Campo” e “Preghiera in gennaio”, scritta di getto poche ore dopo la morte di Luigi Tenco e a lui dedicata. Oltretutto, prematuramente in parte autobiografica: anche Fabrizio é morto in gennaio, e questa canzone é stata suonata ai suoi funerali. Il 1969 é l’anno della consacrazione: a ruota escono due album fondamentali, “Tutti morimmo a stento” e “Fabrizio De André vol. 2”, che balza subito in vetta alle classifiche e contiene inni epocali, come “La canzone di Marinella”, “La guerra di Piero”, “Il testamento”, mentre in “Tutti morimmo a stento” De André abbandona per la prima volta la forma canzone, per un album a tema con brani di ampio respiro.
Nel 1970 De André pubblica nuovamente due dischi, “Volume III” e “La buona novella”. Nel primo ripropone la “Canzone di Marinella” (più tardi racconterà che Marinella era una prostituta realmente esistita e trovata morta lungo il fiume Tanaro). Ne “La buona novella” invece vengono audacemente messi in musica i Vangeli apocrifi, più umani e sensuali di quelli ufficiali.
L’album successivo, “Non al denaro, né all’amore, né al cielo”, è liberamente ispirato all’"Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Masters e contiene quello che De André (come confessa il figlio Cristiano) considerava il proprio autoritratto: “Il suonatore Jones”. Dell’antologia lo aveva colpito l’idea che in vita, per scelta o per necessità, spesso si deve mentire, mentre la morte libera dalla menzogna, permette di essere sinceri.
Nel 1973 De André realizza il suo disco più apertamente politicizzato, “Storia di un impiegato”, dove racconta l’odissea di un impiegato che, infervorato dal maggio francese, sogna di abbattere il sistema con esiti che sono, al contrario, autodistruttivi. Sulla strada del rinnovamento e del confronto (che lo porterà a diverse collaborazioni con altri artisti), Fabrizio incontra nel suo disco successivo, “Canzoni”, Francesco De Gregori, con cui traduce non solo l’amato Brassens, ma anche Leonard Cohen e Bob Dylan. Il disco “Volume VIII”, del 1975, cementerà compiutamente la collaborazione tra i due, con brani scritti a quattro mani.
Nello stesso 1975, Fabrizio De André, da sempre refrattario ad apparire sul palco (di cui ha terrore), effettua il suo primo tour (a 35 anni!), partendo dalla più impensabile delle sedi: la Bussola (14), culla del beat e delle canzonette da spiaggia. Si narra che avesse tanta di quella paura del pubblico da costringere il regista Marco Ferreri a tirarlo fuori dal camerino quasi a forza.
“Da allora, per anni, non riuscii a salire sul palco se prima non avevo ingoiato un litro di whisky, per darmi coraggio”, confesserà. Nel 1977 diventa padre per la seconda volta, grazie alla sua nuova compagna, Dori Ghezzi. L’anno dopo pubblica “Rimini”. Fa seguito il lungo tour con la Premiata Forneria Marconi, che riaggiorna in chiave rock il suo repertorio. Questo tour verrà immortalato in doppio album dal vivo, il primo in Italia di un cantautore insieme a una rock band.
Nello stesso anno, acquista un’azienda agricola in Sardegna. Ed è lì che il 28 agosto del 1979 viene rapito insieme a Dori Ghezzi. I rapitori volevano portare via solo lui, ma Dori disse “se prendete lui, dovete prendere anche me”. Nascosti tra le montagne sarde, incappucciati o incatenati a un albero, resteranno prigionieri per quattro mesi. Ma Fabrizio troverà, nonostante tutto, la forza di perdonare i suoi sequestratori (non i mandanti), dedicando all’esperienza vissuta una canzone dolorosa e splendida, “Hotel Supramonte”, una sorta di esorcismo del male subito. Tale canzone compare nell’album pubblicato nell’81, “Fabrizio De André”. Un disco dove l’autore costruisce un possibile parallelismo tra la cultura degli indiani d’America e quella autoctona del popolo sardo.
Tre anni più tardi, nel 1984, esce “Creuza de mä”, un album destinato alla storia, forse il suo capolavoro assoluto. È un viaggio appassionato nella musica mediterranea e genovese in particolare, dove gli strumenti della tradizione nordafricana, greca, occitana convivono con quelli elettrici in un universo poetico di rara intensità. Il disco, interamente cantato in genovese, segna una pietra miliare nella allora nascente world music e viene idolatrato in tutto il mondo, come un caposaldo della cultura italiana. Nell’album successivo, “Le nuvole”, De André si ispira ad Aristofane (15). E in un brano, l’apocalittico “La Domenica delle salme”, esprime il pericolo della normalizzazione d’una società senza più rabbia e ideali. L’ultimo disco di inediti, l’intenso “Anime salve”, viene concepito interamente insieme al collega e amico (e, almeno in parte, discepolo) genovese Ivano Fossati. Seguono un doppio disco dal vivo e l’antologia “M’innamoravo di tutto”, la prima (e a questo punto ultima) voluta e curata dall’autore stesso.
Nel 1997 poi De André esordisce come scrittore. Scrive, in coppia con Alessandro Gennari, il romanzo “Un destino ridicolo”, che contiene molti spunti autobiografici, svelando il retroterra culturale di Fabrizio nella Genova degli anni ‘60. Il libro era destinato a diventare un film con la supervisione dello stesso cantautore. Soddisfazione negatagli dal destino.

Critici e letterati si sono spesso sperticati per esaltare le sue doti poetiche, rischiando di far passare in secondo piano (e spesso riuscendoci) il De André musicista. In realtà, di De André, non ci attrae solo quel che dice, ma anche il come lo dice. La cornice musicale é magistralmente usata per far risaltare il quadro dei contenuti. Egli usa in maniera sopraffina lo sfondo sonoro, la melodia e il timbro per intensificare o ribaltare il senso di quel che canta. Come l’impianto da rock sinfonico della “Ave Maria” sarda, oppure quando per tratteggiare l’impietoso affresco della “Domenica delle Salme” si serve del malinconico motivo della Barcarola di Ciaikovskij, o quando in “Ottocento” fa ricorso alle suggestioni dell’opera buffa e alla Vienna degli Strauss per accompagnare il suo tragicomico atto d’accusa antiborghese. Per non dimenticare la sua personalissima ma fedele interpretazione dei ritmi musicali popolari del Mediterraneo e del sud del mondo.
Nel suo approccio con i diversi materiali sonori ha sempre dimostrato una sapienza e una consapevolezza dei fini espressivi più da musicista che da cantautore, consapevolezza dimostrata anche dalla scelta dei collaboratori, sempre musicisti e strumentisti di livello assoluto, mai semplici mestieranti.
E anche grazie a questa sua continua attenzione alla musica che le sue canzoni di trent’anni fa, riarrangiate di continuo, suonano ancora come nuove. De André ne aveva dato ancora una volta dimostrazione quest’estate nel suo ultimo concerto romano. Un concerto affollatissimo e pieno di giovanissimi venuti a sentire quel grande vecchio capace di denudare il re senza gridare e perciò tanto più dirompente e irresistibile.

Non é un’esagerazione dire che con la scomparsa di Fabrizio De André si chiude un’epoca, una stagione straordinaria e lunga della musica italiana: quella della canzone d’autore. Non é un’esagerazione perché, nonostante siano ancora tra noi, e ci regalino ancora piccoli e grandi capolavori i vari Guccini, Vecchioni, Fossati, é stato De André l’ultimo vero rivoluzionario della nostra musica, colui che sapeva “stravolgere” a ogni nuovo disco la propria musica. De André é stato colui che più di tutti ha dato un senso alla definizione di “canzone d’autore” non tanto (o almeno, non solo) perché ha saputo creare uno stile personalissimo, che ha influenzato generazioni di musicisti e cantanti, quanto perché ha affrontato con una straordinaria coerenza la propria vicenda artistica, senza mai scendere a compromessi con il mercato, le classifiche, le mode, cambiando sempre sé stesso e la propria musica in completa libertà.
Il vuoto che ha lasciato non sarà facile da colmare. E non solo perché la sua musica e la sua poesia sono state in pratica 35 anni della colonna sonora della nostra vita, ma perché con lui viene a mancare un punto di riferimento, forse unico, di sicuro insostituibile. Lui, scontroso, consumato dal fumo e dal whisky, era comunque uno di cui ci si poteva ancora fidare. In una folla soggetta all’imbroglio, anche la presenza di uno solo che non si lasci imbrogliare può fornire già un vantaggio, un appoggio. E lui, come forse altri suoi colleghi non sono riusciti a fare, é sempre e comunque stato una voce fuori dal coro. Non era un santo, tutt’altro, ma era dotato di invidiabile coerenza, é sempre rimasto sé stesso in mezzo a un mondo che perdeva turbinosamente la propria identità.
Schivo e silenzioso per natura (e non per scelta pubblicitaria come Lucio Battisti), non é mai stato un personaggio pubblico, avendo sempre accuratamente evitato la mondanità e la televisione, ma facendolo in silenzio, senza provocare scalpore. Non ha mai fatto la vita della star, ma questo non gli ha risparmiato l’esperienza già citata del rapimento nel 1979.
Ma, nonostante l’apparente misantropia, De André non si è in realtà mai isolato, non è mai stato un solitario, anzi ha saputo spesso e volentieri collaborare con altri musicisti e cantautori (Fossati, De Gregori, la PFM (16) tra gli altri), si è circondato del suo pubblico, con il quale ha instaurato un rapporto particolare fatto di fedeltà e di passione, e della sua famiglia, con cui ha fatto musica fino alla fine. Cristiano come musicista ad accompagnarlo, Dori e Luvi come coriste.
Non è mai stato possibile utilizzare le classiche etichette per definire il suo modo di fare musica: persino agli esordi, quando le sue canzoni richiamavano in maniera esplicita gli chansonniers francesi, De André riusciva con il suo modo di cantare, con i suoi testi, con la sagacia delle sue prime semplici prove musicali, ad essere altrove, a non lasciarsi inquadrare nelle definizioni, nelle gabbie dei generi.
Di certo è stato un rivoluzionario della canzone, capace per primo di liberare la musica italiana dai pesi della tradizione per affrontare il mare delle novità. Allo stesso tempo non ha mai dimenticato quella stessa tradizione, ha saputo recuperarne le parti più vive e importanti per farla diventare materiale vivo e pulsante. Non hai mai fatto beat e rock, almeno non nel senso stretto dei termini, ma i nostri anni Sessanta e Settanta portano il segno dei suoi testi, delle sue musiche molto più di quanto portino quello delle “rotonde sul mare” o delle scopiazzature da oltre oceano. E nel decennio successivo ha travolto qualsiasi ovvietà e preconcetto musicale, muovendosi con ineffabile leggerezza in scenari diversi e spesso originalissimi. Non era un poeta. Non era un cantautore. Era entrambe le cose, che in lui diventavano due inscindibili facce della stessa medaglia. Ha saputo riscoprire il rapporto tra musica e poesia, ha scandagliato la nostra musica popolare e ha reinterpretato la musica internazionale, francese e statunitense in particolare, e da ogni cosa che ha scoperto, che ha imparato ha saputo trarre una canzone, qualcosa da dividere con gli altri.
E questo rivoluzionario scombussolato anarchico ora finirà sulle pagine della massima istituzione della cultura italiana: l’enciclopedia Treccani.

De André non é mai stato di moda. Infatti la moda, effimera per definizione, passa. Le canzoni di De André restano a brillare al sole di oggi come quando sono nate.
Insomma, Fabrizio De André ha scritto canzoni uniche e meravigliose, che accompagnano la nostra vita e riescono a farcene vivere qualcun’altra. Canzoni grandi e piccole, colte e popolari. Canzoni da non dimenticare.

Note

(1) Vicoli, in dialetto genovese.
(2) Attore comico, creatore del personaggio di Fantozzi.
(3) Cantautore, suicidatosi durante un Festival di Sanremo.
(4) Altro cantautore della scuola genovese.
(5) Zona intorno al porto (presente in ogni città di mare), specie di zona franca per traffici illeciti e piccola malavita.
(6) Cittadina toscana, una delle capitali italiane dell’anarchia.
(7) Poliziotti.
(8) Personaggio di Dostoievskij.
(9) Mar Mediterraneo.
(10) Cantautore milanese.
(11) Forma gergale per ‘arrabbiarsi’.
(12) Scrittore satirico.
(13) Termine con cui in Italia si definiscono i francesi.
(14) Locale in Versilia, famoso per essere alla moda e amato dai vip, non certo per le sue aperture culturali.
(15) Autore della Grecia classica, scrisse l’opera teatrale “Le nuvole”.
(16) Premiata Forneria Marconi.