28.12.06

Vacanze

Per vostra gioia - o dolore? :-) - non sono sparito: sono solo rientrato in patria per godermi qualche giorno di vacanza.

Ci risentiamo - anzi rileggiamo - il 5 gennaio.

Auguri a tutti,

Mauro.

6.12.06

Intervista al Sindaco di Genova Giuseppe Pericu

Dopo lungo silenzio, dovuto a ragioni personali, rieccomi qui, a scrivere per voi :-)

Nel 2004 Genova, la mia amatissima Genova, fu capitale europea della cultura. Io riuscii a ottenere un'intervista via mail col Sindaco di Genova (Giuseppe Pericu) per parlare del tema. L'intervista venne allora pubblicata in versione integrale sul Webgiornale e in versione ridotta su Rinascita Flash.

Dato che quest'anno per Genova c'è stato un altro evento di notevole importanza culturale, cioè il riconoscimento da parte dell'UNESCO di parte della città vecchia come patrimonio dell'umanità, penso non sia male ripresentarla, in quanto alcune risposte potrebbero tornare d'attualità.

Buona lettura,

Mauro.

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INTERVISTA AL SINDACO DI GENOVA GIUSEPPE PERICU

1)Quando ha avuto origine la candidatura di genova a Capitale Europea della Cultura? Quali stimoli e pensieri hanno portato alla decisione di candidarsi e perché proprio il 2004?

L'idea di candidare Genova a Capitale Europea della Cultura, è appannaggio della giunta che mi ha preceduto. Gli stimoli e i pensieri che hanno portato alla decisione di candidarsi sono stati da noi totalmente condivisi e si basano soprattutto sulla consapevolezza delle potenzialità di Genova e sulla necessità che la sua immagine rinnovata di città dalle varie vocazioni, dall'industria alla portualità, al turismo, alla cultura, possa e debba avere un rilancio in ambito internazionale. L'impegno affinché questo progetto si realizzasse è stato da noi caparbiamente perseguito e siamo orgogliosi che la decisione dell'Unione Europea ci abbia premiato.

2)Quale filo conduttore si dipana attraverso le varie iniziative e manifestazioni, oltre al legame tra Genova e il Mediterraneo, il suo mare? Vi sono altri denominatori comuni tra le varie iniziative?

Il mare è certamente un leit-motiv su cui ruotano le varie iniziative e manifestazioni, in quanto legato al tema principale, che è il viaggio, inteso sia in senso proprio, sia in senso metaforico, essendo Genova città di mare per eccellenza e da sempre luogo di arrivi e partenze. Dal motivo conduttore del viaggio si diramano poi tre percorsi tematici che s'intersecano: Genova città d'arte, Genova città delle conoscenze, Genova città contemporanea.

3)Come si legano le iniziative di Genova 2004 a ciò che Genova offre "stabilmente", cioè ai suoi musei, ai suoi teatri, alla sua bellezza e, perché no, anche alla sua economia?

Innanzi tutto con la decisione di impegnare la gran parte delle risorse economiche di cui abbiamo potuto disporre in quanto capitale europea, non in un evento unico destinato ad esaurirsi nell'arco di un anno, ma nella valorizzazione del nostro patrimonio architettonico, storico e artistico. Abbiamo recuperato il nostro sistema museale complessivo, con interventi volti a ristrutturare i meravigliosi palazzi, le ville e gli edifici che sono sedi espositive permanenti. Abbiamo scelto di migliorare l'assetto urbano nel suo complesso, restituendo all'antica bellezza strade e piazze che avevano perduto col tempo molto del loro fascino. Insomma abbiamo cercato di "approfittare" di questa opportunità per rendere la città ancora più bella, vivibile ed attrattiva, nella certezza che i benefici dell'evento 2004 si riverbereranno anche sulla nostra economia futura.

4)Vedendo il calendario delle manifestazioni uno vorrebbe avere il tempo di fermarsi a Genova tutto l'anno per seguire tutto. La maggioranza dei turisti non avranno purtroppo questa possibilità. Fatto salvo il principio secondo cui al primo posto vengono gli interessi e i gusti personali, in quale periodo secondo Lei i turisti potranno scoprire e godere al meglio Genova?

Forse il periodo migliore comincia e coincide con l'inizio della primavera. Tra pochi giorni verrà inaugurata la grande mostra sull'età di Rubens, una delle manifestazioni "clou" del nostro calendario, dedicata agli appassionati dell'arte del Seicento. Sarà un' occasione irripetibile per ammirare le splendide collezioni che arricchivano le dimore dei patrizi genovesi dell'epoca, che erano mecenati, committenti apprezzati e grandi collezionisti d'arte. In aprile ci sarà la mostra del "saper fare", dedicata agli antichi mestieri e alle nuove tecnologie, e poi via via la mostra dedicata a Marc Chagall, quella sui Transatlantici ecc., in una vasta gamma di iniziative rivolte al pubblico più vario ed esigente.

5)Dato che questa intervista apparirà in Germania, viene spontaneo chiederLe se in questo 2004 c'è qualcosa che lega Genova al mondo di lingua tedesca, tipo artisti ospiti o mostre.

Una delle iniziative più interessanti legate al mondo di lingua tedesca è la mostra di oggetti, disegni, stampe di Joseph Beuys, allestita al Museo d'Arte Contemporanea di Villa Croce dal 4 marzo al 4 aprile. Ci sarà poi, all'interno del festival organistico europeo, una sezione dedicata alla musica organistica tedesca del tardo Ottocento e altre manifestazioni organizzate anche in collaborazione con il Goethe Institut di Genova.

6)Sempre relativamente ai legami col mondo tedesco, io personalmente sono a conoscenza della mostra su Joseph Beuys. Perché proprio lui?

Penso che la scelta degli organizzatori sia caduta su Beuys in quanto è considerato tra gli artisti tedeschi più importanti del dopoguerra, impegnato anche provocatoriamente ad ampliare il concetto di arte, considerando opera artistica anche l'agire sociale.

7)In che misura è convolta la cittadinanza? Le iniziative riescono a inserirsi nel tessuto vivo della città oppure, come purtroppo accade spesso in Italia, sono come dei quadri appoggiati a una parete che rischiano di non lasciare traccia?

La cittadinanza è stata coinvolta in via prioritaria nel momento stesso in cui si è incominciato a ragionare sul calendario delle iniziative. Allo scopo è stato anche creato un "Forum delle associazioni". Le molte anime culturali operanti sul territorio hanno partecipato attivamente con proposte, suggerimenti, consigli, condividendo pienamente il progetto.

8)Oltre alle manifestazioni ufficiali è previsto uno spazio aperto per iniziative spontanee, soprattutto giovanili, ma non solo?

Per le iniziative spontanee che non richiedano l'impiego di risorse economiche c'è sempre spazio.

9)Negli ultimi tempi al di fuori di Genova si sono sentite lodi al livello (qualitativo e quantitativo) delle manifestazioni, ma critiche sulle indicazioni e sulla pubblicizzazione delle stesse (e qualche volta anche sulla presenza un po' eccessiva di cantieri aperti). Sono giustificate queste critiche? Cosa ha fatto (o sta facendo) il Comune al riguardo?

Il Comune sta facendo tutto quanto è nelle proprie competenze. Come Lei certamente sa, l'evento 2004 coinvolge tutti gli enti territoriali genovesi. A tal fine è stato costituito un apposito Comitato, presieduto da me in quanto Sindaco, e di cui fanno parte, allo stesso titolo, Regione Liguria, Provincia, Autorità Portuale, Camera di Commercio, Università. Per l'organizzazione, la comunicazione e la promozione dell'evento è stata costituita una società apposita, denominata "Genova 2004", che, a quanto mi risulta, sta lavorando molto intensamente anche su questi aspetti.

10)Si ha l'impressione (soprattutto noi italiani, anzi genovesi, all'estero abbiamo quest'impressione) che lo Stato abbia lasciato che Genova se la cavasse da sola, non si è avuta l'impressione che l'Italia si sentisse coinvolta. Eppure (e il comportamento di altri paesi in situazioni analoghe lo dimostra) questi eventi se adeguatamente sostenuti sono pubblicità per l'intero paese. Perché Roma sembra aver snobbato Genova?

Credo che non sia giusto affermare che Genova sia stata abbandonata. Il Governo ci ha sostenuto con le risorse che riteneva opportuno destinarci. E' vero che altre città non italiane che hanno svolto il ruolo di capitale europea della cultura prima di Genova hanno ricevuto finanziamenti di maggiore entità, ma evidentemente, nel momento attuale, non era possibile per il Governo italiano disporre diversamente.

11)Con Genova 2004 si chiude un quindicennio di eventi unici per la città (1990, mondiali di calcio, 1992, manifestazioni colombiane, 2001, G8, 2004, capitale europea della cultura), un quindicennio come raramente anche altre città italiane hanno avuto. Si può dire, senza timore di smentite, che Genova sia ora stabilmente inserita nel circuito culturale europeo? Come pensa di muoversi il Comune per evitare di uscirne una volta che i riflettori di Genova 2004 si spegneranno?

Io credo proprio che Genova abbia tutte le caratteristiche per entrare nel circuito delle città d'arte e di cultura europee e che meriti di far conoscere il notevole patrimonio artistico e storico che le appartiene. Il nostro impegno, i nostri sforzi in vista del 2004 sono stati rivolti proprio a garantire benefici effetti futuri sulla città che possano durare ben oltre quest'anno simbolico.

12)E infine, quella che per un genovese è la domanda più importante: cosa resterà ai cittadini, a coloro che a Genova vivono e lavorano e a coloro che, pur non vivendoci, non vengono da turisti ma da genovesi? Cosa li accompagnerà a partire dal 2005 e potrà essere chiamato "risultato di Genova 2004"?

Una città più bella, più vivibile, dotata di industrie tradizionali e innovative, con possibilità di crescita per le piccole e medie imprese, con un porto attivissimo e tra i primi nel Meditteraneo, una città divenuta recentemente sede dell'Istituto Italiano di Tecnologia, in cui sono attivi centri di formazione e di ricerca di eccellenza, una città multietnica e multiculturale, in cui si possa venire per ammirarne il fascino, per godere di paesaggi di suggestiva bellezza, ma anche per lavorare, per studiare, per investire.

31.10.06

Mafia, Mafien... oder? - versione integrale

Il 6 ottobre scorso pubblicai qui sopra il mio articolo Mafia, Mafien... oder?, come apparso nel 2001 su Contrasto.

Scrissi che la versione pubblicata era stata depurata per sicurezza di alcuni passaggi. Qui vi presento la versione integrale, mai pubblicata.

Buona lettura,

Mauro.

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Gibt es Mafia auch in Deutschland oder nicht?

Mafia, Mafien... oder?

Oft haben wir gehört, dass mit den italienischen Emigranten auch die Mafia in Deutschland gekommen ist, aber dass diese Mafia in den italienischen Kreise geblieben ist. Ist das wahr? Nicht ganz: die Mafia ist wirklich hier angekommen, aber die Geschichte ist ein bißchen anders.

Qualche tempo fa, parlando con un avvocato qui in Germania, scoprii qualcosa tutto sommato non assurdo, ma che mi stupì non poco: due cittadine tedesche (Kempten e Münster) possono essere considerate come un “buen retiro” della mafia. Due luoghi dove i mafiosi che vogliono ritirarsi dagli “affari”, ma senza tradire, vanno a godersi la pensione. Due luoghi in cui, senza problemi, possono fare i pensionati.
Ma perché proprio la Germania? Perché proprio queste due località?
La Germania non è certo famosa per la tolleranza verso le attività illegali, non è un paradiso fiscale, ha legami con l’Italia abbastanza forti da poter permettere agli inquirenti italiani di venire qui a chiedere alle autorità tedesche di darsi da fare (e viceversa). Quindi, sembrerebbe l’ultimo paese in cui un mafioso possa sentirsi sicuro. Eppure...

In effetti non è difficile capire l’importanza di città quali Münster e Kempten: cittadine tranquille, dove (non solo per i cittadini, ma anche per le autorità) il quieto vivere è più importante della giustizia e quindi dove si possono fare i propri affari senza problemi, fino a che non si disturbano gli altri. Cittadine ricche, e quindi dove un afflusso ulteriore di denaro non fa notizia, e soprattutto cittadine in posizioni strategiche. Münster, apparentemente isolata, ma ben collegata a centri finanziari quali Francoforte, Colonia, Londra e Amsterdam. Kempten, apparentemente ancora più isolata, ma vicina alla Svizzera (la grande “lavatrice” di tutti i capitali mafiosi) e non troppo lontana dall’Italia.
Per di più cittadine di un paese dove le leggi e le autorità sono sì severe, ma fino a poco tempo fa non abituate alla criminalità organizzata di stampo mafioso, quindi su certi argomenti “ingenue”.

Ma la Germania non è solo un luogo di pensionamento per mafiosi, se così fosse tanto l’Italia quanto la Germania potrebbero permettersi sonni più tranquilli.
Il legame tra la mafia e la Germania è molto più articolato e ha avuto origine in maniera sistematica negli anni ‘70, una volta finita l’ondata dei “Gastarbeiter”, con una vera e propria esplosione dopo il 1989, dopo la caduta del muro di Berlino.

Tutto sommato non è una sorpresa: la Germania è il cuore economico-finanziario d’Europa, quindi ogni tipo di commercio o attività finanziaria, legale o illegale, non può prescindere da questo paese. Per di più, dopo la caduta del muro e l’unificazione, essa è diventata la porta d’accesso privilegiata verso l’ex blocco sovietico, mercato vastissimo e non limitato da quelle regole che stanno frenando fortemente l’attività mafiosa all’interno della comunità europea.
A dimostrazione di questa centralità tedesca sta il fatto che recenti indagini (riportate in un reportage dal “Corriere della Sera”) hanno mostrato come un’organizzazione criminale molto meno organizzata e più “antiquata” della classica mafia, e cioè la ‘ndrangheta calabrese, investe in Germania la maggior parte dei propri guadagni.

Nel 1998, “Die Welt”, riportando dichiarazioni e rapporti dell’unità investigativa antimafia bavarese e del Bundeskriminalamt, tracciò un quadro sommario, ma interessante, delle attività mafiose in Germania.
Secondo tale rapporto, le organizzazioni criminali italiane stanno sempre più trasferendo attività oltralpe e la Germania non è più solo zona di “pensione” o di parcheggio per killers, ma si sta sempre più trasformando in territorio operativo, con sempre maggiore indipendenza dalle centrali in territorio italiano. Le principali attività in territorio tedesco sarebbero il traffico di droga e armi, affiancate dal traffico di schiavi (prostituzione, lavoro nero, ecc.), dalla produzione di denaro falso, ma soprattutto il riciclaggio di denaro sporco, con investimenti spesso legali.
La mafia “tedesca”, ovviamente, ha sviluppato un comportamento diverso nei confronti del territorio rispetto alle origini italiane. Il vero e proprio controllo del territorio, sovrapponendosi allo stato, qui non esiste, in parte per la capacità dello stato stesso di opporvisi e in parte (forse soprattutto) per la terribile concorrenza delle mafie russa e turca, stabilitesi qui da anni. Le famiglie presenti in Germania fanno di tutto per mantenere un basso profilo, per non apparire, e ciò con lo scopo di poter lavorare indisturbate.

Del resto questo abbandono del controllo del territorio a favore di una finanziarizzazione delle attività sta procedendo anche in Italia. Ed è credibile che ciò non sia dovuto solo ai successi ottenuti dalle autorità italiane nella lotta contro la criminalità, ma che le conquiste economiche operate dalla mafia in paesi come la Germania e i Paesi Bassi possano essere servite da esempio.
Per questo, lo stesso ministro Schilly ha dichiarato che la mafia non può essere combattuta dai singoli stati, ma solo dall’azione congiunta di essi e abbandonando le tecniche classiche a favore di investigazioni bancarie e fiscali (quasi seguendo l’esempio di ciò che fecero gli Stati Uniti per colpire Al Capone).

Qualcosa di più preciso su ciò che è la Germania per la mafia può essere scoperto leggendo le trascrizioni delle sedute della Commissione Antimafia del Parlamento italiano.
In tali sedute sono stati interrogati pentiti di mafia i quali hanno chiarito molti punti oscuri o addirittura sconosciuti di tale rapporto.

Elemento molto interessante è il modo in cui la mafia si rifornisce di armi.
Si è sempre detto che l’acquisto di armi avvenisse generalmente in Svizzera oppure nelle zone “calde” del globo, dove a causa di guerre le armi circolano quasi liberamente. Questo era vero fino a qualche tempo fa.
Dichiarazioni del pentito Leonardo Messina hanno messo a nudo una nuova strada per ottenere le armi, strada percorsa in Belgio e Germania. Qui, dai centri NATO, escono armi e materiali di ogni tipo che prendono la strada degli arsenali mafiosi, anche sfruttando l’apertura delle frontiere. Tali armi riescono a uscire dalle basi un po’ grazie alla corruzione dei militari e in parte grazie al maggiore lassismo nella sorveglianza che si ha dalla fine della guerra fredda. Spesso sono elementi della criminalità comune, non direttamente legati alla mafia, a portare fuori le armi e poi le “decine” (cioè le “filiali”) delle varie famiglie in Germania (in particolare nella zona di Mannheim) si occupano dell’acquisto e della distribuzione.

Le stesse decine si occupano poi del già citato riciclaggio. I personaggi più importanti, tramite prestanome, possiedono grosse imprese, in particolare nel settore movimento terra, nel calcestruzzo e nell’import/export (dove vengono operati i maggiori investimenti e con il quale spesso si riesce a far passare il riciclaggio, quando le cose vanno male, come “semplice” elusione o evasione fiscale).

Il cittadino tedesco però raramente è in grado di rendersi conto di questo intreccio di interessi sporchi e dell’avanzata della mafia in Germania.
Non è in grado di accorgersene in parte per la mancanza di strumenti culturali adeguati (fino a una ventina di anni fa le mafie erano fenomeni geograficamente circoscritti) e in parte per la capacità della mafia di nascondersi.
E non aiuta il fatto che spesso il giornalismo si sofferma sul lato romantico (il senso dell’onore e dell’appartenenza) o su quello brutale (la violenza, i fatti di sangue) della mafia. Due lati che nella realtà tedesca sono quasi assenti, ma che fanno vendere i giornali e riempire le sale dei cinema.
Il cittadino tedesco gradisce, eccome, questo tipo di descrizioni. Ciò è testimoniato anche dal successo avuto recentemente da un disco contenente le canzoni della ‘ndrangheta, canzoni che parlano di onore, avventura, vendette, violenza. Disco pubblicato proprio in Germania e che in Italia non avrebbe avuto altrettanto successo.

I tedeschi sono comunque in buona compagnia: anche in Italia si comincia a credere che la mafia sia finita. E la si cerca nei cinema.

Omaggio a Fabrizio De André - versione lunga

L'ultimo articolo da me inserito nel blog era un ricordo di De André (Omaggio a Fabrizio De André), pubblicato su Contrasto.

Come scrissi si trattava di una versione ridotta per la stampa e che la versione integrale venne pubblicata solo sul web.

Qui vi riporto la versione integrale.
Avendo Contrasto buona parte dei lettori tedeschi, è stato necessario inserire alcune note che per la maggioranza degli italiani sono inutili, ma che qui per completezza ho lasciato.

Buona lettura,

Mauro.

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Fabrizio De André, l’ultimo poeta ribelle

L’11 Gennaio è morto a Milano il cantautore genovese, ucciso da un tumore

Fabrizio De André si è spento alle 2.30 di mattina dell’11 Gennaio scorso, stroncato, a soli 58 anni, da un tumore. Era già ricoverato da tempo all’Istituto dei Tumori di Milano, ma la notizia ha comunque sconvolto il mondo musicale e culturale italiano e soprattutto gli innumerevoli appassionati del cantautore. Il 13 Gennaio si è tenuto a Genova, nella centralissima Basilica di Carignano, il funerale. Rigorosamente pubblico, perché, come hanno detto i famigliari dell’artista, “Fabrizio appartiene non solo alla famiglia, ma a tutti quelli che lo hanno amato”.
Per tutta la giornata, il comune di Genova ha diffuso, tramite altoparlanti appositamente sistemati, lungo Via Garibaldi (dove é sito il municipio) le sue canzoni nel cielo della città. Mentre, dal piazzale davanti alla Basilica, la folla accorsa ai funerali poteva ammirare dall’alto il panorama dei “carruggi” (1), gli stretti vicoli del centro storico genovese tanto amati dal cantautore e dai lui resi famosi con molte canzoni, soprattutto con la ballata “Via del Campo”.
Al capezzale del cantautore, al momento del decesso, c’erano la moglie, Dori Ghezzi, e i figli, Cristiano e Luvi. “Papà è morto serenamente, gli eravamo accanto, gli stringevamo le mani”, ha detto Cristiano, da anni musicista come il padre e spesso suo collaboratore dal vivo e in studio. Lui, come il resto della famiglia, era riuscito a mantenere uno stretto riserbo sulla malattia di Fabrizio, ma da diverse settimane la voce che il cantautore fosse seriamente malato si era comunque diffusa, soprattutto nel mondo musicale. In autunno lo stesso cantante aveva pubblicamente annunciato la rinuncia a una serie di concerti, in quanto affetto da più di un’ernia del disco. Ernia che era stata scoperta a fine estate e che in realtà era un tumore.
Tumore da De André affrontato con coraggio. Fino quasi a convincere gli stessi medici (e di sicuro Dori) che ce l’avrebbe fatta. Non é stato così e purtroppo la malattia gli ha impedito di morire nella sua amatissima e solare Genova, confinandolo in una nebbiosa Milano.
Ma forse, il titolo del suo ultimo album, al passato (“M’innamoravo di tutto”) era già un commiato (consapevole?) da tutti i suoi fans, da tutti coloro che lo amavano.

De André era nato a Genova, nel ricco quartiere della Foce il 18 Febbraio del 1940. Figlio della borghesia agiata, è stato uno studente pigro fermatosi a pochi esami dalla laurea in legge, e ha avuto tra gli amici di sempre Paolo Villaggio (2), Luigi Tenco (3), Gino Paoli (4).
Fin da adolescente mostra insofferenza verso quella stessa borghesia genovese da cui viene e che, almeno in parte, frequenta. Preferisce infatti frequentare la Genova d’angiporto (5), quella dei bordelli, dei pittori, dei tiratardi e i circoli anarchici di Genova e Carrara (6). Alla laurea, come detto, non arriva mai. Non arriva perché allo studio dei codici antepone altre letture, divorando i classici della letteratura russa e francese e poi (soprattutto) i pensatori anarchici: Bakunin, Malatesta, Stirner. E comincia con una chitarra a raccontare le sue storie e i suoi personaggi che non hanno nulla di convenzionale. Sono emarginati, perdenti, reietti, puttane, drogati che De André nobilita sempre con il filtro della pietà, mentre a sbirri (7), giudici e preti non risparmia gli strali del sarcasmo corrosivo.
Bisogna sottolineare che, in effetti, la frattura con le sue origini familiari, con la cerchia sociale a cui sembrava destinato, era più di natura esistenziale che politica. La sua pigrizia (non per nulla Oblomov (8) era dei uno suoi eroi letterari) e il suo disprezzo per l’efficientismo lo allontanavano da ogni responsabilità di censo, e soprattutto da suo padre, “super” manager di una delle aziende genovesi importanti nel mondo, padre con cui manterrà sempre un rapporto di odio-amore, rafforzatosi in entrambi i poli - quello negativo e quello positivo - ai tempi del rapimento.

De André si sentiva profondamente mediterraneo, quasi un arabo di Genova, lontano dall’anglofilia di tanta nostra musica, e in quello che ormai é considerato il suo capolavoro (“Creuza de mä”, in lingua genovese) era approdato a un mondo sonoro gravido di spazio, di lentezza, di lontananza dalla frenesia malata, ridicola, spietata del nostro tempo. Un mondo sonoro che ritraeva perfettamente il carattere del Mare Nostrum (9).
Ha scritto poco relativamente ai ritmi discografici, moltissimo in rapporto alla propria indole. La qualità, rarefatta nel tempo (un disco ogni lustro negli ultimi tempi). é sempre rimasta altissima e, cosa rarissima nel mondo dell’arte, ha probabilmente raggiunto i suoi vertici proprio con le opere tarde, soprattutto “Creuza de mä” e “Le nuvole”.

Fin dagli anni Sessanta noi tutti da ragazzi ci siamo innamorati dei suoi eroi malvisti, derelitti, risplendenti di solitudine. E la forza delle sue parole, che rendevano reale la vaga idea che il mondo fosse ingiusto e ottuso, era una ferita, una ferita nell’animo. Quelle stesse parole erano la conferma dell’intuizione che l’arte e la poesia potessero essere la più radicale delle rivolte.
Intuizione che, con il crescere, diventava un ricordo, quasi un peccato di gioventù, da nascondere conformandosi alle masse. Nei nostri animi si cicatrizzava. Nei nostri, ma non in quello di Fabrizio che continuava, anno dopo anno, disco dopo disco, a diffondere il suo credo anarchico e pacifista, a fare nuovi proseliti.
Ma non dobbiamo dimenticare che, nonostante il suo pacifismo (immortale rimarrà l’immagine del soldato, che preferisce morire piuttosto che sparare, nella “Guerra di Piero”), le sue canzoni non erano per nulla incruente. Anzi, erano violente, durissime, facevano male. Il suo pensiero era animoso, duro fino all’acredine nella rappresentazione del potere, fortemente incline all’invettiva. E certamente nessuno dei cantautori italiani (tranne forse, con uno stile molto diverso, il Roberto Vecchioni (10) degli anni ‘70) ha saputo cantare così civilmente l’odio per l’inciviltà dei tempi e dell’uomo in generale. Anarchicamente, detestava le maggioranze e la loro forza conformistica, capace di anestetizzare i sentimenti. Ma, invece di ‘incazzarsi’ (11) e lasciarsi prendere dalla rabbia e dall’impotenza, lasciava scatenare la sua potenza narrativa, la sua anima poetica.
Un altro, probabilmente, avrebbe finito per cadere nella trappola del terrorismo, delle bombe vere (come il suo “Bombarolo”). Le sue bombe invece erano canzoni: con esse, faceva esplodere le contraddizioni del proprio tempo, ne metteva a nudo le menzogne e le ipocrisie. Il linguaggio come arma, quasi sulle tracce di Pasolini.

Proprio Villaggio, uno degli amici d’infanzia, lo ricorda in maniera scarna, ma profonda, quasi volesse sottrarsi alla retorica che circonda la morte dei personaggi celebri: “Era intelligente, geniale, allegro, spiritoso, squinternato, un po’ vanitoso, snob: non era triste, come voleva l’immagine pubblica che gli avevano dipinto addosso; era un anarchico, grande poeta”.
Crescendo, l’amicizia d’infanzia s’era consolidata anche in virtù di una comunanza ideale e caratteriale. “Avevamo caratteri simili”, prosegue Villaggio, “eravamo tutti e due squinternati, entrambi pecore nere delle rispettive famiglie. Abbiamo cominciato insieme a lavorare facendo intrattenimento sulle navi della Costa Crociere. Negli anni non abbiamo mai smesso di vederci.”
Senza parole sono rimasti i componenti della Premiata Forneria Marconi, che con De André avevano suonato in una celebre, quasi leggendaria, tournée alla fine degli anni ‘70. “Una perdita dura, durissima”, riesce solo a dire Franz Di Cioccio.
“Un grande poeta ci ha lasciato. Siamo tutti più tristi” sono le parole con cui Beppe Carletti, leader dei Nomadi, ricorda De André. “Non conoscevo benissimo De André, ma ho suonato tantissime volte le sue canzoni” spiega Carletti. “Lui era un grande, uno che non metteva mai in fila le cose: quello che aveva da dire lo diceva. Con Guccini, è stato il più grande della sua generazione”.
E, per ripetere le parole con cui Michele Serra (12) lo ha ricordato su “Repubblica”, “aveva un bellissimo viso da signore, ancora ben intuibile dietro gli sfregi lividi dell’alcol, come in un ritratto di Bacon. Aveva una bellissima voce da uomo, profonda e fedele alle parole che pronunciava, levigata negli anni da un fiume di sigarette. E aveva un bellissimo cuore, il cuore dei grandi poeti, aperto al cielo, alle nuvole, alle donne che amano, ai soldati che muoiono, ai potenti che comprano, ai delinquenti che pagano”.

Ma come nasce il cantautore De André?
Nel suo apprendistato alla musica, sul versante del jazz, incrocia spesso al Roby Bar (storico luogo di incontro dei giovani musicisti genovesi) Luigi Tenco che suona il sax e al cui gruppo si unisce. Poi passa in una formazione amatoriale di country, decidendosi infine a definire un proprio stile di cantautore scabro, crudo e pungente - ispirato ai transalpini (13) Brassens e Brel - colpendo immediatamente per i suoi toni vocali gravi, melodicissimi. La prima incisione é del ‘58: il 45 giri “Nuvole barocche”, pezzo scritto da altri che passa inosservato. Intanto si sposa e, a soli 23 anni, é già padre di Cristiano.
Il brano che gli cambia la vita é “La canzone di Marinella”, interpretata da Mina nel ‘65, che diventa subito un successo. Il debutto come cantautore avviene tre anni più tardi con l’album “Fabrizio De André vol. 1”, che già contiene brani destinati a essere classici, come “Bocca di rosa” (ispirata a una figura reale, Maritza, prostituta slava che iniziò al sesso tanti giovani della Genova anni ‘60), “Via del Campo” e “Preghiera in gennaio”, scritta di getto poche ore dopo la morte di Luigi Tenco e a lui dedicata. Oltretutto, prematuramente in parte autobiografica: anche Fabrizio é morto in gennaio, e questa canzone é stata suonata ai suoi funerali. Il 1969 é l’anno della consacrazione: a ruota escono due album fondamentali, “Tutti morimmo a stento” e “Fabrizio De André vol. 2”, che balza subito in vetta alle classifiche e contiene inni epocali, come “La canzone di Marinella”, “La guerra di Piero”, “Il testamento”, mentre in “Tutti morimmo a stento” De André abbandona per la prima volta la forma canzone, per un album a tema con brani di ampio respiro.
Nel 1970 De André pubblica nuovamente due dischi, “Volume III” e “La buona novella”. Nel primo ripropone la “Canzone di Marinella” (più tardi racconterà che Marinella era una prostituta realmente esistita e trovata morta lungo il fiume Tanaro). Ne “La buona novella” invece vengono audacemente messi in musica i Vangeli apocrifi, più umani e sensuali di quelli ufficiali.
L’album successivo, “Non al denaro, né all’amore, né al cielo”, è liberamente ispirato all’"Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Masters e contiene quello che De André (come confessa il figlio Cristiano) considerava il proprio autoritratto: “Il suonatore Jones”. Dell’antologia lo aveva colpito l’idea che in vita, per scelta o per necessità, spesso si deve mentire, mentre la morte libera dalla menzogna, permette di essere sinceri.
Nel 1973 De André realizza il suo disco più apertamente politicizzato, “Storia di un impiegato”, dove racconta l’odissea di un impiegato che, infervorato dal maggio francese, sogna di abbattere il sistema con esiti che sono, al contrario, autodistruttivi. Sulla strada del rinnovamento e del confronto (che lo porterà a diverse collaborazioni con altri artisti), Fabrizio incontra nel suo disco successivo, “Canzoni”, Francesco De Gregori, con cui traduce non solo l’amato Brassens, ma anche Leonard Cohen e Bob Dylan. Il disco “Volume VIII”, del 1975, cementerà compiutamente la collaborazione tra i due, con brani scritti a quattro mani.
Nello stesso 1975, Fabrizio De André, da sempre refrattario ad apparire sul palco (di cui ha terrore), effettua il suo primo tour (a 35 anni!), partendo dalla più impensabile delle sedi: la Bussola (14), culla del beat e delle canzonette da spiaggia. Si narra che avesse tanta di quella paura del pubblico da costringere il regista Marco Ferreri a tirarlo fuori dal camerino quasi a forza.
“Da allora, per anni, non riuscii a salire sul palco se prima non avevo ingoiato un litro di whisky, per darmi coraggio”, confesserà. Nel 1977 diventa padre per la seconda volta, grazie alla sua nuova compagna, Dori Ghezzi. L’anno dopo pubblica “Rimini”. Fa seguito il lungo tour con la Premiata Forneria Marconi, che riaggiorna in chiave rock il suo repertorio. Questo tour verrà immortalato in doppio album dal vivo, il primo in Italia di un cantautore insieme a una rock band.
Nello stesso anno, acquista un’azienda agricola in Sardegna. Ed è lì che il 28 agosto del 1979 viene rapito insieme a Dori Ghezzi. I rapitori volevano portare via solo lui, ma Dori disse “se prendete lui, dovete prendere anche me”. Nascosti tra le montagne sarde, incappucciati o incatenati a un albero, resteranno prigionieri per quattro mesi. Ma Fabrizio troverà, nonostante tutto, la forza di perdonare i suoi sequestratori (non i mandanti), dedicando all’esperienza vissuta una canzone dolorosa e splendida, “Hotel Supramonte”, una sorta di esorcismo del male subito. Tale canzone compare nell’album pubblicato nell’81, “Fabrizio De André”. Un disco dove l’autore costruisce un possibile parallelismo tra la cultura degli indiani d’America e quella autoctona del popolo sardo.
Tre anni più tardi, nel 1984, esce “Creuza de mä”, un album destinato alla storia, forse il suo capolavoro assoluto. È un viaggio appassionato nella musica mediterranea e genovese in particolare, dove gli strumenti della tradizione nordafricana, greca, occitana convivono con quelli elettrici in un universo poetico di rara intensità. Il disco, interamente cantato in genovese, segna una pietra miliare nella allora nascente world music e viene idolatrato in tutto il mondo, come un caposaldo della cultura italiana. Nell’album successivo, “Le nuvole”, De André si ispira ad Aristofane (15). E in un brano, l’apocalittico “La Domenica delle salme”, esprime il pericolo della normalizzazione d’una società senza più rabbia e ideali. L’ultimo disco di inediti, l’intenso “Anime salve”, viene concepito interamente insieme al collega e amico (e, almeno in parte, discepolo) genovese Ivano Fossati. Seguono un doppio disco dal vivo e l’antologia “M’innamoravo di tutto”, la prima (e a questo punto ultima) voluta e curata dall’autore stesso.
Nel 1997 poi De André esordisce come scrittore. Scrive, in coppia con Alessandro Gennari, il romanzo “Un destino ridicolo”, che contiene molti spunti autobiografici, svelando il retroterra culturale di Fabrizio nella Genova degli anni ‘60. Il libro era destinato a diventare un film con la supervisione dello stesso cantautore. Soddisfazione negatagli dal destino.

Critici e letterati si sono spesso sperticati per esaltare le sue doti poetiche, rischiando di far passare in secondo piano (e spesso riuscendoci) il De André musicista. In realtà, di De André, non ci attrae solo quel che dice, ma anche il come lo dice. La cornice musicale é magistralmente usata per far risaltare il quadro dei contenuti. Egli usa in maniera sopraffina lo sfondo sonoro, la melodia e il timbro per intensificare o ribaltare il senso di quel che canta. Come l’impianto da rock sinfonico della “Ave Maria” sarda, oppure quando per tratteggiare l’impietoso affresco della “Domenica delle Salme” si serve del malinconico motivo della Barcarola di Ciaikovskij, o quando in “Ottocento” fa ricorso alle suggestioni dell’opera buffa e alla Vienna degli Strauss per accompagnare il suo tragicomico atto d’accusa antiborghese. Per non dimenticare la sua personalissima ma fedele interpretazione dei ritmi musicali popolari del Mediterraneo e del sud del mondo.
Nel suo approccio con i diversi materiali sonori ha sempre dimostrato una sapienza e una consapevolezza dei fini espressivi più da musicista che da cantautore, consapevolezza dimostrata anche dalla scelta dei collaboratori, sempre musicisti e strumentisti di livello assoluto, mai semplici mestieranti.
E anche grazie a questa sua continua attenzione alla musica che le sue canzoni di trent’anni fa, riarrangiate di continuo, suonano ancora come nuove. De André ne aveva dato ancora una volta dimostrazione quest’estate nel suo ultimo concerto romano. Un concerto affollatissimo e pieno di giovanissimi venuti a sentire quel grande vecchio capace di denudare il re senza gridare e perciò tanto più dirompente e irresistibile.

Non é un’esagerazione dire che con la scomparsa di Fabrizio De André si chiude un’epoca, una stagione straordinaria e lunga della musica italiana: quella della canzone d’autore. Non é un’esagerazione perché, nonostante siano ancora tra noi, e ci regalino ancora piccoli e grandi capolavori i vari Guccini, Vecchioni, Fossati, é stato De André l’ultimo vero rivoluzionario della nostra musica, colui che sapeva “stravolgere” a ogni nuovo disco la propria musica. De André é stato colui che più di tutti ha dato un senso alla definizione di “canzone d’autore” non tanto (o almeno, non solo) perché ha saputo creare uno stile personalissimo, che ha influenzato generazioni di musicisti e cantanti, quanto perché ha affrontato con una straordinaria coerenza la propria vicenda artistica, senza mai scendere a compromessi con il mercato, le classifiche, le mode, cambiando sempre sé stesso e la propria musica in completa libertà.
Il vuoto che ha lasciato non sarà facile da colmare. E non solo perché la sua musica e la sua poesia sono state in pratica 35 anni della colonna sonora della nostra vita, ma perché con lui viene a mancare un punto di riferimento, forse unico, di sicuro insostituibile. Lui, scontroso, consumato dal fumo e dal whisky, era comunque uno di cui ci si poteva ancora fidare. In una folla soggetta all’imbroglio, anche la presenza di uno solo che non si lasci imbrogliare può fornire già un vantaggio, un appoggio. E lui, come forse altri suoi colleghi non sono riusciti a fare, é sempre e comunque stato una voce fuori dal coro. Non era un santo, tutt’altro, ma era dotato di invidiabile coerenza, é sempre rimasto sé stesso in mezzo a un mondo che perdeva turbinosamente la propria identità.
Schivo e silenzioso per natura (e non per scelta pubblicitaria come Lucio Battisti), non é mai stato un personaggio pubblico, avendo sempre accuratamente evitato la mondanità e la televisione, ma facendolo in silenzio, senza provocare scalpore. Non ha mai fatto la vita della star, ma questo non gli ha risparmiato l’esperienza già citata del rapimento nel 1979.
Ma, nonostante l’apparente misantropia, De André non si è in realtà mai isolato, non è mai stato un solitario, anzi ha saputo spesso e volentieri collaborare con altri musicisti e cantautori (Fossati, De Gregori, la PFM (16) tra gli altri), si è circondato del suo pubblico, con il quale ha instaurato un rapporto particolare fatto di fedeltà e di passione, e della sua famiglia, con cui ha fatto musica fino alla fine. Cristiano come musicista ad accompagnarlo, Dori e Luvi come coriste.
Non è mai stato possibile utilizzare le classiche etichette per definire il suo modo di fare musica: persino agli esordi, quando le sue canzoni richiamavano in maniera esplicita gli chansonniers francesi, De André riusciva con il suo modo di cantare, con i suoi testi, con la sagacia delle sue prime semplici prove musicali, ad essere altrove, a non lasciarsi inquadrare nelle definizioni, nelle gabbie dei generi.
Di certo è stato un rivoluzionario della canzone, capace per primo di liberare la musica italiana dai pesi della tradizione per affrontare il mare delle novità. Allo stesso tempo non ha mai dimenticato quella stessa tradizione, ha saputo recuperarne le parti più vive e importanti per farla diventare materiale vivo e pulsante. Non hai mai fatto beat e rock, almeno non nel senso stretto dei termini, ma i nostri anni Sessanta e Settanta portano il segno dei suoi testi, delle sue musiche molto più di quanto portino quello delle “rotonde sul mare” o delle scopiazzature da oltre oceano. E nel decennio successivo ha travolto qualsiasi ovvietà e preconcetto musicale, muovendosi con ineffabile leggerezza in scenari diversi e spesso originalissimi. Non era un poeta. Non era un cantautore. Era entrambe le cose, che in lui diventavano due inscindibili facce della stessa medaglia. Ha saputo riscoprire il rapporto tra musica e poesia, ha scandagliato la nostra musica popolare e ha reinterpretato la musica internazionale, francese e statunitense in particolare, e da ogni cosa che ha scoperto, che ha imparato ha saputo trarre una canzone, qualcosa da dividere con gli altri.
E questo rivoluzionario scombussolato anarchico ora finirà sulle pagine della massima istituzione della cultura italiana: l’enciclopedia Treccani.

De André non é mai stato di moda. Infatti la moda, effimera per definizione, passa. Le canzoni di De André restano a brillare al sole di oggi come quando sono nate.
Insomma, Fabrizio De André ha scritto canzoni uniche e meravigliose, che accompagnano la nostra vita e riescono a farcene vivere qualcun’altra. Canzoni grandi e piccole, colte e popolari. Canzoni da non dimenticare.

Note

(1) Vicoli, in dialetto genovese.
(2) Attore comico, creatore del personaggio di Fantozzi.
(3) Cantautore, suicidatosi durante un Festival di Sanremo.
(4) Altro cantautore della scuola genovese.
(5) Zona intorno al porto (presente in ogni città di mare), specie di zona franca per traffici illeciti e piccola malavita.
(6) Cittadina toscana, una delle capitali italiane dell’anarchia.
(7) Poliziotti.
(8) Personaggio di Dostoievskij.
(9) Mar Mediterraneo.
(10) Cantautore milanese.
(11) Forma gergale per ‘arrabbiarsi’.
(12) Scrittore satirico.
(13) Termine con cui in Italia si definiscono i francesi.
(14) Locale in Versilia, famoso per essere alla moda e amato dai vip, non certo per le sue aperture culturali.
(15) Autore della Grecia classica, scrisse l’opera teatrale “Le nuvole”.
(16) Premiata Forneria Marconi.

20.10.06

Omaggio a Fabrizio De André

Negli ultimi tempi sembra essere riscoppiata una "moda" De André.

Tutti cantano le sue canzoni senza che nessuno glielo chieda. Gli ultimi in ordine di tempo sono stati Claudio Baglioni (che non giudico, non avendo ancora ascoltato le sue interpretazioni di De André) e Gianni Morandi... quest'ultimo con un'interpretazione infamante sia della memoria di Fabrizio sia della sua propria carriera.

E allora io ritiro fuori l'articolo che scrissi in suo ricordo poco dopo la sua morte nel 1999 per Contrasto.

Qui vi presento la versione "breve" per la versione a stampa. In un prossimo messaggio presenterò la versione completa, pubblicata solo in rete.

Buona lettura,

Mauro.

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Omaggio a Fabrizio De André

Mit dem Tod des genuesischen Liedermachers endet eine Epoche in Italien

L'11 Gennaio scorso è scomparso, a causa di un tumore, Fabrizio De André. Questa è la notizia che all’inizio dell’anno ha scosso l’Italia della musica e della cultura, ma anche quella della gente comune. Notizia che nessuno si aspettava, anche se, in realtà, i più attenti avevano già potuto cogliere una sorta di definitivo commiato nel titolo del suo ultimo lavoro, scritto al passato (l’antologia “M’innamoravo di tutto”).

Ma chi è stato Fabrizio De André? Cosa significa per la musica italiana la sua scomparsa?

De André era nato a Genova, il 18 Febbraio del 1940. Di famiglia altoborghese, studente di giurisprudenza svogliato, ha sempre preferito la Genova dell’angiporto, quella dei disperati, alla Genova ricca e fortunata. I suoi compagni di strada, reali o metaforici, sono stati puttane e ubriaconi, emarginati e drogati. Mentre a chiesa e istituzioni non ha risparmiato il sarcasmo.

La scelta dei disperati rispetto ai fortunati era prima esistenziale che politica: non sopportava i doveri materiali, l’efficientismo estremo, la “necessità” di produrre insita nella nostra società. Ha infatti inciso pochissimo rispetto ai classici ritmi dell’industria discografica (ma molto rispetto alla propria indole pigra).

Negli anni sessanta cominciò a comporre. E gli ascoltatori scoprirono nella sua musica che l’arte e la poesia possono essere la più radicale delle rivolte. Con gli anni lui rimase sempre uguale, col suo anarchismo e il suo pacifismo, pacifismo per nulla incruento. Le sue canzoni erano dure, facevano male. I contenuti erano animosi, acri, tendenti all’invettiva. Pochi hanno saputo colpire duramente come lui la società. La sua rabbia sfociava in poesia, dove forse un altro avrebbe ceduto al terrorismo. Ma la sua arma, emulo di Pasolini, era il linguaggio.

Comincia insieme a Luigi Tenco col jazz, prima di creare uno stile proprio - scabro, crudo, pungente, ispirato agli chansonniers francesi. Il suo primo singolo, del 1958, passa inosservato. La fama arriva nel 1965, con “La canzone di Marinella”, da lui scritta e interpretata da Mina. Nel 1968 il suo primo album, con “Bocca di rosa” e “Via del Campo”.

La consacrazione è del 1969, quando incide “Tutti morimmo a stento” e “Fabrizio De André vol. 2”. Dei quali, il secondo contiene brani come “La canzone di Marinella”, “La guerra di Piero”, “Il testamento”; mentre il primo è un album a tema con brani di ampio respiro. Anche nel 1970 incide due album: “Volume III” e “La buona novella”. Ne “La buona novella” mette audacemente in musica i Vangeli apocrifi. L’album successivo, “Non al denaro né all’amore né al cielo”, è tratto dall’“Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters e contiene quello che De André considerava il proprio autoritratto: “Il suonatore Jones”.

Il suo disco più politico è del 1973, “Storia di un impiegato”, ispirato ai moti studenteschi (“Il bombarolo” ne è la canzone simbolo). Nei due dischi successivi collabora con successo con Francesco De Gregori e traduce Cohen e Dylan. Nel 1978 pubblica “Rimini”. Fa seguito la lunga tournée con la Premiata Forneria Marconi, che vede la sua musica reinterpretata in chiave rock. Tournée, divenuta ormai quasi leggenda.

Nel 1979 viene rapito. Fabrizio dedicherà nel 1981 a questa segnante esperienza una canzone dolorosa e splendida, “Hotel Supramonte”. Tre anni più tardi esce “Creuza de mä”, un album entrato nella storia, il suo capolavoro assoluto. Il disco è un viaggio nella musica del Mediterraneo, cantato interamente in dialetto genovese. Nell’album successivo, “Le Nuvole”, De André si ispira ad Aristofane e canta la morte degli ideali. L’ultimo disco di inediti, “Anime salve”, viene concepito insieme a Ivano Fossati, forse il suo vero erede musicale.

Con la sua morte si chiude un’epoca: la sua libertà di pensiero era, e probabilmente rimarrà, unica. De André non è mai stato di moda. La moda passa. Le canzoni di De André restano e conservano il loro fascino. Canzoni da non dimenticare.

11.10.06

Convegno sui movimenti democratici italiani e francesi

Negli ultimi anni c'è stata una rinascita della domanda di "politica", non nel senso di partecipazione parlamentare (anzi: l'astensionismo cresce sempre di più), ma di attività di base, del "fare" politica al di là dei sistemi rappresentativi.

Ciò purtroppo non dimostra che che la politica interessi fasce sempre più larghe della citadinanza, ma che chi si interessa sta ritrovando il coraggio, la voglia (e purtroppo la necessità, a quanto pare) di far sentire la propria voce.

Nel 2003 venne organizzato presso l'Istituto di Romanistica dell'Università di Francoforte sul Meno, qui in Germania, un convegno dedicato ai movimenti italiani e francesi, con interventi molto interessanti.

Nel numero di novembre 2003 di Contrasto provai a riassumere i contenuti di detto convegno. Ve li rioffro qui.

Buona lettura,

Mauro.

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Convegno sui movimenti democratici italiani e francesi

Dammbruch des Parlamentarismus und des Repräsentativsystems: die Demokratie?

Il 20 e 21 giugno scorsi, presso l’Università di Francoforte, si è tenuto un convegno coordinato da Francesca Fabbri-Müller dedicato ai nuovi movimenti democratici italiani e francesi nati in risposta alla globalizzazione politico-finanziaria.

Bisogna subito dire che sul convegno ha aleggiato fin da subito un’ombra: Berlusconi. Non solo per il fenomeno in sé, quanto per il fatto che pochi giorni prima in Italia era stata approvata la legge sull’immunità. Berlusconi è stato tema esplicito dell’intervento di Adrien Candiard (École Nationale Superieur, Parigi): “Il governo Berlusconi: anomalia o modello neoliberale?”. Candiard parte dal concetto tipico italiano di anomalia. Strappi come Berlusconi o Mussolini sono normalmente eccezioni, in Italia anomalie. Anche Mussolini cominciò come anomalia italiana e divenne quasi un modello europeo. Seguirà anche Berlusconi lo stesso percorso?

Nicola Tranfaglia (Università di Torino) ha aperto il convegno parlando dei rapporti tra media e politica, cercando di inquadrare il fenomeno Berlusconi all’interno della situazione italiana. Situazione “debole”, particolare anche prima del suo avvento. Uno dei problemi, forse il meno conosciuto nonostante la sua importanza, è l’assenza di fatto in Italia di editori puri, con i conseguenti intrecci tra stampa, economia e politica.

Il successivo intervento di Bernard Cassen (Le Monde Diplomatique) è stato dedicato ad Attac-France e al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, punto di partenza di un vero movimento mondiale, contraltare del forum economico di Davos. Il forum sociale e le sue versioni locali esprimono il bisogno di impegno politico attivo, il desiderio di guidarsi e non essere guidati. Questi forum, espressione di bisogni profondi, sono però ancora vittime di ambiguità e contraddizioni non risolte. Il rischio maggiore, dice Cassen, è costituito dal sottile confine tra radicamento e radicalizzazione.

Su Attac e la sua genesi ha parlato anche Jacques Capdevielle (Istituto di Scienze Politiche del CNRS), sottolineando il ruolo attivo di Attac-France e di Le Monde Diplomatique nell’organizzazione del Forum. Attac è nato nella seconda metà degli anni ’90 durante i negoziati OCSE per un accordo multilaterale sull’investimento, in reazione allo strappo tra politica e cittadini. Reazione che in parte contribuì al ritiro della Francia da tale accordo. La difficoltà di Attac (e non solo) è la comunicazione col “grande pubblico”. Attac conta 30.000 membri (in confronto, i verdi francesi 10.000), in Italia e Spagna migliaia di persone sono scese in piazza. Nonostante ciò Chirac, Aznar e Berlusconi ne sono stati intaccati elettoralmente in maniera limitata.

Rimanendo in Francia, Erwan Lecoeur (dottorando di sociologia a Parigi) ha esaminato la figura di Le Pen e il populismo del suo Front National. Anche in questo caso si ripropone il problema comunicativo: dal 1995 sul FN è infatti quasi calato il silenzio, sembra che il problema sia svanito. Un problema – come dimostrato dalle elezioni del 2002 – invece ben vivo. Il movimento di Le Pen sotto certi aspetti è una versione di destra dei movimenti democratici, una reazione alla globalizzazione. Le Pen parla facile, concreto, fornisce apparenti risposte. Rischiando così di indebolire i movimenti popolari più che la destra.

Francesco Pardi (Università di Firenze) ha parlato poi dei Girotondi e della loro genesi: i movimenti sono una reazione non solo all’autocrazia berlusconiana, ma anche (o soprattutto?) all’inattività della sinistra. L’opposizione latita nel Palazzo? Si fa (non in modo violento) per le strade. Cristiano Barattino (studente dell’Università di Genova) tratta lo stesso tema di fondo, ponendo l’accento sulla reazione al G8 di Genova. Questi due interventi introducono anche il tema della rappresentatività. Il potere economico non elegge più i propri rappresentanti, si autoelegge.

Ornella De Zordo (Università di Firenze) ha introdotto il Laboratorio per la Democrazia, che affronta la crisi della politica partecipativa anche a livello di teorico con gruppi tematici e studi. Particolarmente interessante tra i temi trattati dal LabDem il rapporto tra donne e politica: il governo Berlusconi ha costituito anche un passo indietro in merito alla presenza femminile in politica.

L’ultimo intervento, di Paul Ginsborg (Università di Firenze), ha cercato di analizzare sociologicamente i movimenti, ponendo l’accento sui ceti medi, in passato visti negativamente, oggi diventati riflessivi e attivi, anche grazie alla società post-industriale che ha portato alla fine del dualismo padrone-operaio.

Questo convegno ha cercato con successo di chiarire lo stato attuale dei movimenti. Il loro futuro resta però aperto e, in parte, accompagnato da incognite. Cosa sarà dei movimenti se dall’interno verrà chiesta una partecipazione, una responsabilità diretta? Riusciranno i movimenti italiani a diventare laboratori permanenti, oppure il giorno che cadrà Berlusconi perderanno spinta e vitalità?

In attesa di queste risposte, i movimenti hanno intanto riportato la politica intesa nel suo senso più vasto di attività sociale e impegno concreto in mezzo alla gente. Cosa che alla politica “ufficiale” ormai da lungo tempo non riesce più.

6.10.06

Mafia, Mafien... oder?

Esiste la mafia in Germania? Facile (e giusto) dire di sì, ma come? In quali forme esiste? Su questo tema si sprecano i pregiudizi e i luoghi comuni.

Esistono ormai innumerevoli studi sul tema... ma sembra quasi ci sia una certa paura a parlarne. Ma una paura strana, come se il rischio grosso non fosse quello di far "arrabbiare" la mafia, quanto quello di "sporcare" l'immagine della Germania. Un paese dove certe cose non ci sono.

Ho provato anch'io a dire la mia sul tema in un articolo pubblicato sul numero di novembre 2001 di Contrasto.

Premetto che l'articolo prima della pubblicazione era stato depurato di un paio di passaggi dalla redazione, non per censura, ma come misura di sicurezza (passaggi che andrò a ricercare e pubblicherò qui sopra).

Buona lettura,

Mauro.

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Mafia, Mafien... oder?

Gibt es die Mafia auch in Deutschland, oder doch nicht?

Qualche tempo fa, parlando con un avvocato qui in Germania, scoprii qualcosa di tutto sommato non assurdo, ma che mi stupì non poco: due città tedesche (Kempten e Münster) possono essere considerate come un “buen retiro” della mafia. Due luoghi dove i mafiosi che vogliono ritirarsi dagli “affari”, ma senza tradire, vanno a godersi la pensione. Due luoghi in cui, senza problemi, possono fare i pensionati. Ma perché proprio la Germania? Perché proprio queste due località?

La Germania non è certo famosa per la tolleranza verso le attività illegali, non è un paradiso fiscale, ha legami con l’Italia abbastanza forti da poter permettere agli inquirenti italiani di venire qui a chiedere alle autorità tedesche di darsi da fare (e viceversa). Quindi, sembrerebbe l’ultimo paese in cui un mafioso possa sentirsi sicuro. Eppure...

In effetti non è difficile capire l’importanza di città quali Münster e Kempten: luoghi tranquilli, dove (non solo per i cittadini, ma anche per le autorità) il quieto vivere è più importante della giustizia e quindi dove si possono fare i propri affari senza problemi, fino a che non si disturbano gli altri. Cittadine ricche, dove un afflusso ulteriore di denaro, di conseguenza, non fa notizia, e soprattutto cittadine in posizioni strategiche. Münster, apparentemente isolata, ma ben collegata a centri finanziari quali Francoforte, Colonia, Londra e Amsterdam. Kempten, apparentemente ancora più isolata, ma vicina alla Svizzera (la grande “lavatrice” di tutti i capitali mafiosi) e non troppo lontana dall’Italia.

Per di più città di un paese dove le leggi e le autorità sono sì severe, ma fino a poco tempo fa non abituate alla criminalità organizzata di stampo mafioso, quindi su certi argomenti “ingenue”.

Ma la Germania non è solo un luogo di pensionamento per mafiosi, se così fosse tanto l’Italia quanto la Germania potrebbero permettersi sonni più tranquilli.

Il legame tra la mafia e la Germania è molto più articolato e ha avuto origine in maniera sistematica negli anni Settanta, una volta finita l’ondata dei Gastarbeiter, con una vera e propria esplosione dopo il 1989, dopo la caduta del muro di Berlino.

Tutto sommato non è una sorpresa: la Germania è il cuore economico-finanziario d’Europa, quindi ogni tipo di commercio o attività finanziaria, legale o illegale, non può prescindere da questo paese. Per di più, dopo la caduta del muro e l’unificazione, essa è diventata la porta d’accesso privilegiata verso l’ex blocco sovietico, mercato vastissimo e non limitato da quelle regole che stanno frenando fortemente l’attività mafiosa all’interno della comunità europea.

A dimostrazione di questa centralità tedesca sta il fatto che recenti indagini (riportate in un reportage dal Corriere della Sera) hanno mostrato come un’organizzazione criminale molto meno organizzata e più “antiquata” della classica mafia, e cioè la ’ndrangheta calabrese, investe in Germania la maggior parte dei propri guadagni. Nel 1998, il quotidiano Die Welt, riportando dichiarazioni e rapporti dell’unità investigativa antimafia bavarese e del Bundeskriminalamt, tracciò un quadro sommario, ma interessante, delle attività mafiose in Germania.

Secondo tale rapporto, le organizzazioni criminali italiane stanno sempre più trasferendo attività oltralpe e la Germania non è più solo zona di “pensione” o di parcheggio per killer, ma si sta sempre più trasformando in territorio operativo, con sempre maggiore indipendenza dalle centrali in territorio italiano. Le principali attività in territorio tedesco sarebbero il traffico di droga e armi, affiancate dal traffico di schiavi (prostituzione, lavoro nero, ecc.), dalla produzione di denaro falso, ma soprattutto il riciclaggio di denaro sporco, con investimenti spesso legali.

La mafia “tedesca”, ovviamente, ha sviluppato un comportamento diverso nei confronti del territorio rispetto alle origini italiane. Il vero e proprio controllo del territorio, sovrapponendosi allo Stato, qui non esiste, in parte per la capacità dello stato stesso di opporvisi e in parte (forse soprattutto) per la terribile concorrenza delle mafie russa e turca, stabilitesi qui da anni. Le famiglie presenti in Germania fanno di tutto per mantenere un basso profilo, per non apparire, e ciò con lo scopo di poter lavorare indisturbate.

Del resto questo abbandono del controllo del territorio a favore di una finanziarizzazione delle attività sta procedendo anche in Italia. Ed è credibile che ciò non sia dovuto solo ai successi ottenuti dalle autorità italiane nella lotta contro la criminalità, ma che le conquiste economiche operate dalla mafia in paesi come la Germania e i Paesi Bassi possano essere servite da esempio.

Il cittadino tedesco, peraltro, è raramente in grado di rendersi conto di questo intreccio di interessi sporchi e dell’avanzata della mafia in Germania. Non è in grado di accorgersene in parte per la mancanza di strumenti culturali adeguati (fino a una ventina di anni fa le mafie erano fenomeni geograficamente circoscritti) e in parte per la capacità della mafia di nascondersi.

E non aiuta il fatto che spesso il giornalismo si sofferma sul lato romantico (il senso dell’onore e dell’appartenenza) o su quello brutale (la violenza, i fatti di sangue) della mafia. Due lati che nella realtà tedesca sono quasi assenti, ma che fanno vendere i giornali e riempire le sale dei cinema.

Il cittadino tedesco gradisce, eccome, questo tipo di descrizioni. Ciò è testimoniato anche dal successo avuto recentemente da un disco contenente le canzoni della ’ndrangheta, canzoni che parlano di onore, avventura, vendette, violenza. Disco pubblicato proprio in Germania e che in Italia non avrebbe avuto altrettanto successo.

I tedeschi sono comunque in buona compagnia: anche in Italia si comincia a credere che la mafia sia finita. E la si cerca nei cinema.

2.10.06

Gramsci e gli indifferenti

Qualche giorno fa ho pubblicato su questo blog un mio articolo critico nei confronti dell'astensionismo (Contro Ponzio Pilato), cercando di inquadrare il fenomeno da un punto di vista giuridico-costituzionale.

Due mesi dopo, sempre su Rinascita Flash, ho cercato di estendere l'analisi all'indifferenza in generale, partendo da una forte affermazione di Antonio Gramsci.

Buona lettura,

Mauro.

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Gramsci e gli indifferenti

Sull’ultimo numero di Rinascita Flash ho avuto la possibilità di pubblicare un articolo sull’invito a disertare i referenda da parte di chiesa e partiti. L’articolo cercava di dare un’inquadratura giuridico-costituzionale al tema, ma chi ha letto tra le righe ha capito di sicuro che il principale bersaglio della mia indignazione era il disinteresse verso la cosa pubblica del singolo cittadino. Che ricopra o meno cariche pubbliche.

Non sono certo ne' il primo ne' l’unico a indignarsi per questo disinteresse.
Un certo Antonio Gramsci già negli anni giovanili scrisse un interessante articolo per il numero unico „Città futura“ del 1917 dal titolo „Indifferenti“.

L’incipit dell'articolo è significativo e a distanza di quasi un secolo non ha perso assolutamente nulla della sua attualità. Anzi è oggi ancora più attuale che allora. E Gramsci sa di non essere originale: anche lui si rifà chi c’era già prima, per la precisione al filosofo tedesco Friedrich Hebbel:
«Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che „vivere vuol dire essere partigiani“. Non possono esistere solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti».

Non credo possano esistere parole più moderne e più concrete per descrivere le colpe di chi abdica alle proprie responsabilità, ma poi pretende di vedersi riconosciuti i propri diritti. Sì, sto parlando in primis di coloro che si astengono alle elezioni. Ma anche di tutti coloro che voltano lo sguardo dall’altra parte quando vedono problemi che non li riguardano personalmente. Ma poi si sentono vittime di chissà quale ingiustizia se non vengono aiutati quando hanno problemi loro.
Queste persone, è vero, non commettono nessun reato, non vanno contro la lettera delle leggi e delle costituzioni, però spesso producono danni morali e materiali molto maggiori di tante persone che commettono concretamente reati.
Perché? Nella maggioranza dei casi uno che commette un reato spera di non essere scoperto, però nel momento in cui è messo di fronte ai fatti piega il capo e si prende le proprie responsabilità (sto parlando di delinquenti che comunque sono esseri umani per quanto „negativi“, è chiaro che ciò non vale per tutti i delinquenti... un Adolf Hitler o un Jeffrey Dahmer dubito conoscessero anche solo la parola “responsabilità”). L’indifferente trova invece sempre una scusa per svicolare. E dato che non ha commesso reati, alla fine paga chi non è indifferente.

L’esempio migliore sono le elezioni parlamentari. Ultimamente abbiamo avuto in Europa continentale una media del 30% di astenuti. Ora, il 30% dei voti la grande maggioranza dei partiti se lo sognano... ma non è questo il problema. Il problema è che c’è chi ha votato per la maggioranza e quindi, a ragione, pretende che la maggioranza mantenga le promesse fatte, lamentandosi per l’ostruzionismo dell’opposizione. E c’è chi ha votato per l’opposizione e pretende, ugualmente a ragione, che questa prema sulla maggioranza, la spinga o la blocchi e la costringa a compromessi. Entrambe le parti in questo caso non fanno altro che esercitare diritti non solo giuridici, ma anche morali.
Ma la terza parte, coloro che non hanno votato? Che diritto hanno di lamentarsi se la maggioranza e/o l’opposizione li danneggianno? Del resto loro se ne sono lavati le mani della cosa pubblica. Che dovere (morale) ha la cosa pubblica di occuparsi di loro?

La cosa più grave è però che questa indifferenza si esprime nella vita in generale. Si lasciano morire gli altri (di fame, di malattia, di guerra) perché la cosa non ci riguarda. Però appena noi stessi, o un nostro caro amico o parente stretto, siamo in difficoltà, pretendiamo che la comunità (sia intesa in senso legale, cioè lo Stato, che in senso morale, cioè le singole persone) si occupi di noi.
Ne abbiamo diritto? Legalmente forse sì, ma a livello morale la risposta è solo una: no.

È facile fare solo da spettatori e poi lamentarsi se le cose non vanno come vorremmo. È così difficile capire che se ci fossimo sporcati le mani forse avremmo potuto contribuire a farle andare come vorremmo? Cito nuovamente Gramsci:
«I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità.» Chiaro, no?

Questo atteggiamento porta anche all’egoismo totale del mondo consumistico odierno. Dove l’importante è apparire non essere. E chi non è in grado di avere una „adeguata“ apparenza, non ha neanche il diritto di essere.
Al proposito posso „solo“ consigliare due letture estremamente interessanti.
La prima è un testo di Jean Ziegler che vi ho già consigliato in un altro articolo: „Die neuen Herrscher der Welt und ihre globalen Widersacher” (Goldmann, 2005). In particolare vi vorrei invitare a leggere pagina 283.
La seconda è l’ultima fatica di un giornalista italiano messo praticamente all’indice perché scomodo: Oliviero Beha. Il testo si intitola „Crescete e prostituitevi“ (BUR, 2005). Un testo che io definirei fondamentale per capire la situazione attuale, ma che è sconsigliabile da leggere se avete qualche scheletro (anche se magari in buona fede dimenticato) nell’armadio.

Ziegler e Beha sono però persone che non sono „indifferenti“. Magari non tutte le loro idee sono giuste e condivisibili, però entrambi hanno il coraggio di esprimerle. Non si tirano indietro. Non se ne lavano le mani.

La ricerca della superficialità, questa fuga dai pensieri forti, problematici è stata osservata anche da persone molto più vicine al cosiddetto pubblico, alla cosiddetta massa.
Tutti avrete sentito parlare dei concerti del „Live8“ organizzati per sensibilizzare i giovani e i governi sui problemi della povertà e della fame.
Uno di questi concerti è stato tenuto a Roma e uno dei gruppi italiani più amati dai ragazzini, „Le Vibrazioni“, dopo aver tenuto la sua parte di spettacolo, ai giornalisti che gli chiedevano le sue sensazioni ha rilasciato la seguente dichiarazione:
«Abbiamo avuto l’impressione di esibirci davanti a giovani insensibili, che vengono a vedere un artista che suona tre canzoni.»
Capite? Non è importante la motivazione dell’evento. È importante vedere il proprio idolo. Credo non servano altri commenti.

Chiudo citando l’ultima frase dello scritto di Gramsci, che non posso non fare mia:
«Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.»

29.9.06

Che cos'è l'Italia?

Anni fa, su un forum che gestisco sul web (Bollettino - Italienischer Stammtisch OnLine) mi venne posta secca da una partecipante la domanda: Che cos'è l'Italia?

Domanda difficile...

Io risposi. E qualche tempo dopo Contrasto pubblicò questa mia risposta sulla sua rivista (nel febbraio 2000, per la precisione).

Non si può definire un articolo, piuttosto un pensiero. Ma ve lo propongo lo stesso.

Buona lettura,

Mauro.

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Che cos'è l'Italia?

L'Italia? L’Italia è un luogo dell’anima.

È tutto e il contrario di tutto. È quello che gli italiani cercano di dimenticare, ma appena ci riescono, tornano a cercare. È il paradiso mascherato da inferno. È Europa e Africa, Asia e America. È quello che non riusciamo a definire, ma conosciamo benissimo. È quello che ci portiamo dentro quando siamo in giro per il mondo. È il paese che non sa farsi pubblicità. È il cuore staccato dal cervello, ma è anche un cervello che fa girare il mondo. È mare che si arrampica per i monti e monti che si tuffano in mare. È caldo e freddo. È la modernità antica e la memoria del domani. È volontà di fare ciò che non si sa fare e noia di fare ciò che si sa fare. È solitudine rumorosa, compagnia silenziosa. È proprietà di tutti e di nessuno. È una santa che si prostituisce oppure una prostituta che aspira alla santità. È ciò che si dovrebbe inventare se non ci fosse. È ciò che spesso si vorrebbe cancellare, ma poi cosa mettiamo al suo posto? È razionalità sposata alla superstizione. È malinconica allegria. È paura del futuro e del passato. È voglia di fuga dal presente.

L’Italia è... e forse non serve dire altro.

28.9.06

Piccola nota di servizio

È appena arrivato un commento all'articolo "L’ultima vittoria di Wojtyla" estremamente apprezzabile in toni e contenuti, però... anonimo.
L'autore o autrice non ha lasciato il suo nome indicato.

Dato che mi sono ripromesso di non pubblicare messaggi anonimi, a prescindere da toni e contenuti, ma mi dispiace rifiutare questo commento, vorrei invitare l'autore o autrice a riscriverlo inserendo il suo nome (mi basta il nome, non servono cognome, e-mail o altri recapiti).

Grazie.

Saluti,

Mauro.

27.9.06

Il ritorno di Silvia

È fresca fresca la notizia della definitiva scarcerazione, grazie alla legge sull'indulto, di Silvia Baraldini.

Con tutte le polemiche che ne seguiranno, perché a quanto pare essere veramente di sinistra, coerenti e convinti come la Baraldini, sembra in questo paese (o forse in questo tempo) un reato molto peggiore dell'omicidio e della violenza carnale.

Voglio qui presentarvi l'articolo che scrissi nell'ottobre 1999 per il numero 20 di Contrasto, in occasione dell'estradizione di Silvia in Italia.

Buona lettura,

Mauro.

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Il ritorno di Silvia

Finalmente, dopo anni di tribolazioni e innumerevoli tentativi, gli Stati Uniti hanno acconsentito a firmare l’accordo per il rientro in Italia di Silvia Baraldini, da anni incarcerata oltreoceano per reati terroristici.

Ma chi è veramente Silvia Baraldini? Cosa c’è dietro il suo ritorno in Italia? Non sono domande banali, in quanto la vicenda non è certo chiara e la politica prevale sulla giustizia.

La storia di Silvia comincia nel 1982, quando viene arrestata con l’accusa di aver partecipato a una rapina in cui ci sono scappati due morti. Da quest’accusa verrà assolta, ma, nel 1983, viene di nuovo arrestata con varie accuse: partecipazione all’evasione di una terrorista, associazione per delinquere allo scopo di rapina, omicidio, sequestro di persona, partecipazione a rapina. Per i primi due di questi reati viene condannata nel 1984 a 40 anni di carcere (più altri 3 per non aver voluto deporre davanti al Grand Jury).

Dopodiché la sua vita scorre tra sei diverse carceri negli USA (una delle quali verrà poi chiusa anche per intervento di Amnesty International, per la disumanità delle condizioni di detenzione). Nel 1988 le viene diagnosticato un tumore maligno a causa del quale viene sottoposta a due interventi chirurgici in condizioni a dir poco discutibili (non le vennero tolte le catene dai polsi neanche sul tavolo operatorio). Nel 1989 la prima richiesta italiana di estradizione (la convenzione di Strasburgo, sottoscritta tanto dall’Italia quanto dagli USA, prevede che un condannato possa scontare la pena nel suo paese d’origine). Infine i due viaggi negli USA di D’Alema di quest’anno (il primo subito dopo il verdetto sul Cermis, un caso?) a seguito dei quali si è ottenuto il rimpatrio. Prima di esaminare la sentenza (in realtà politica, in pieno stile McCarthy, non giudiziaria), cerchiamo di capire come Silvia si ritrovò dentro a questa storia.

Trasferitasi nel 1961 negli USA con la famiglia, la Baraldini partecipò, seguendo le sue idee di sinistra, dapprima ai moti studenteschi e per i diritti civili e nel 1975 divenne quindi membro del gruppo “19 maggio”, in lotta (anche violenta) contro la discriminazione razziale. Da allora ne condivise l’attività politica, senza mai entrare in atti violenti, venendo comunque “schedata” dalle autorità. Venne infine incarcerata in base alla legge RICO, legge istituita in funzione antimafia (e usata in senso estensivo solo per convenienza politica) che prevede che i crimini commessi dall’appartenente a un gruppo possano essere automaticamente addossati a tutti gli altri. I due reati imputati a Silvia rientrano in questa casistica. L’associazione per delinquere a scopo di rapina si riduce nel suo caso all’ideazione di una rapina poi mai avvenuta, in cui venne tirata in causa da un pentito che non è stato in grado di riconoscerla. La partecipazione all’evasione (incruenta) di Assata Shukur è stata data per certa dal tribunale, secondo cui Silvia guidò l’auto della fuga. In realtà la madre sostiene che Silvia era a Roma e non negli USA e in più una componente del gruppo (che attualmente gode di asilo politico a Cuba) dichiarò di essere stata lei, e non Silvia, alla guida.

Allora perché questa condanna e un trattamento penitenziario disumano? Semplice quanto sconvolgente: perché Silvia era una dissidente, era contro il sistema.

Come interpretare ora questo “cedimento” statunitense? Male, molto male. Non è un successo delle autorità italiane come scritto, bensì un ignobile baratto: l’Italia ha chinato la testa sull’atto criminale dei piloti del Cermis e soprattutto sullo scandaloso verdetto che li ha, di fatto, assolti. In cambio gli USA hanno restituito Silvia, di cui in realtà non sapevano più che farsene.

A peggiorare il tutto c’è il testo dell’accordo tra Italia e USA per il rimpatrio: pochi ne conoscono il contenuto, ma il fatto che rappresentanti ufficiali dello stato italiano lo abbiano firmato è di una gravità inaudita, in quanto contiene clausole anticostituzionali. In pratica, con tale firma l’Italia si impegna a mantenere le stesse condizioni carcerarie statunitensi, cioè a non applicare leggi costituzionalmente garantite.

Se l’Italia rispetterà tale firma avremo l’ennesima dimostrazione di essere semplicemente una colonia, e non uno Stato sovrano.

26.9.06

Contro Ponzio Pilato

In occasione dei referenda del 2005 sulla procreazione assistita trionfò l'astensionismo. Io scrissi al proposito un articolo cercando di dare un inquadratura giuridico-costituzionale alla questione, nel piccolo delle mie possibilità.

È interessante in certi casi scoprire quante cose non si sanno: per esempio che invitare all'astensione non è morale lo sappiamo tutti (anche se quando ci conviene lo dimentichiamo), ma quanti sanno che in molti casi è anche reato?

E, per chi è credente, andrebbe pure considerato peccato... almeno, così ci insegna la Bibbia.

Qui vi presento l'articolo pubblicato nell'estate del 2005 su Rinascita Flash.

Buona lettura,

Mauro.

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Contro Ponzio Pilato
Contro Don Abbondio


I referenda del 12-13 giugno sono passati. E sono falliti.
Intendiamoci, non è un fallimento che il sì non abbia vinto. Qualunque siano le nostre personali idee, qualunque sia il bene (reale o ipotetico) dello Stato, ogni referendum che raggiunga il quorum è un successo. Che vinca una parte o l’altra.
Qualunque referendum che venga invalidato a causa dell’astensionismo è un fallimento.
Un fallimento dello Stato, un fallimento dell’informazione, un fallimento della democrazia. E soprattutto un fallimento dell’intelligenza.

Ma non è il momento di parlare di ideali: per condannare il Ponzio Pilato astensionista sono più che sufficienti dati concreti. Leggi, Costituzione e Bibbia.

Tenendo conto che i primi sostenitori dell’astensione sono stati i vescovi e i cosiddetti partiti cattolici, è interessante partire dalla Bibbia.
E più precisamente dal Vangelo secondo Matteo, un testo che a quanto pare non gode di molta fortuna letteraria all’interno del mondo cattolico, visto che è stato completamente disatteso il suo insegnamento.

In due punti il Vangelo secondo Matteo smentisce il comportamento dei vescovi.
Matteo 5,37: “Il vostro parlare sia sì, sì; no, no; poiché il di più viene dal maligno”. Tradotto in parole povere: abbiate il coraggio di esprimere le vostre opinioni, di prendervi le vostre responsabilità. L’astenervi dal prendere posizione è male. Forse addirittura peccato.
Matteo 22,21: “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Tradotto anche qui in parole povere: siate laici, non lasciate che la fede governi lo Stato e neanche che lo Stato vi imponga una fede.

Il nuovo Testamento ci viene in aiuto in un altro punto, per la precisione nella Lettera ai Colossesi 2, 16-21. La citazione è lunga e me la risparmio, riassunti però questi versi chiedono ai cristiani di rispettare le leggi (laiche!) dello Stato, senza tradire i propri principi religiosi. I vescovi ci hanno chiesto molto più semplicemente di venire meno alle regole dello Stato e di impedire agli altri (tramite l’astensione e, di conseguenza, l’annullamento del voto di chi alle urne è andato) di poter esprimere le proprie idee. Insomma: la legge va rispettata, ma avete il dovere di parlare, di difendere le vostre idee. Non di astenervi.

Come sarcasticamente, ma correttamente, ha commentato Vittorio Zucconi sul sito web di Repubblica: “Don Abbondio si sarebbe astenuto”. Don Abbondio. Non Cristo.

Non tutti sono però credenti. A coloro cui la Bibbia non dice nulla, può forse venire in aiuto la Costituzione della Repubblica Italiana. Un testo che dovrebbe unire tutti i cittadini italiani, qualunque credo religioso o politico essi abbiano.
E comunque un testo che tutti, volenti o nolenti, devono rispettare, in quanto costituente la legge fondamentale dello Stato.

La Costituzione contiene nell’articolo 48 (Titolo IV, “Rapporti politici”) due frasi molto importanti.
“Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”. Non obbligo, ma comunque “dovere civico”. Civico significa anche “del cittadino”. Come fa uno che non adempie ai propri doveri civici pretendere di veder rispettati i propri diritti di cittadino? In sostanza: hai il diritto di non votare, ma così facendo decidi tu stesso di catalogarti come cittadino di serie B.
La seconda frase interessante, che è anche la più importante, recita: “Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge”.
Cosa è invece successo? Che il 25% (più quelli che non hanno potuto votare per impossibilità e non per scelta) dei cittadini italiani hanno visto il proprio diritto di voto non solo limitato ma addirittura annullato grazie alla campagna astensionista condotta non solo dalla chiesa, ma addirittura da esponenti di punta della politica e da membri del Parlamento della Repubblica Italiana.
Il voto di chi si è recato alle urne è stato, grazie al non raggiungimento del quorum, annullato, cancellato. A queste persone è stato di fatto negato il diritto di esprimere la propria voce nel segreto dell’urna, in quanto questa voce è stata a posteriori cancellata.

Molte persone considerano però Bibbia e Costituzione come “ideali”, non come leggi. Insomma dei cataloghi di opzioni che possono essere rispettati o meno, a seconda di voglia e convenienza.
Per quanto possa essere antipatico, questa visione può essere accettata (non apprezzata, però) per quanto riguarda la Bibbia, essendo essa un testo religioso, non un codice legislativo. La Costituzione però è legge effettiva. La legge suprema di uno Stato.
Molti non lo sanno. Ritengono che la Costituzione sia solo una dichiarazione di intenti.

In questo caso ci vengono in aiuto le leggi della Repubblica Italiana. Anche se, per assurdo, avessero ragione coloro che ritengono la Costituzione solo una dichiarazione di intenti, questi non sarebbero comunque giustificati nella loro propaganda astensionista. Anzi, secondo la legge sarebbero condannabili alla reclusione da sei mesi a tre anni (oltre che a pene pecuniarie).

Leggiamo l’articolo 98, titolo VII, del D.P.R. n. 361 del 30 marzo 1957 (“Testo unico delle leggi elettorali”): “Il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio, l’esercente di un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera a costringere gli elettori […] o ad indurli all’astensione, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire 600.000 a lire 4.000.000”. In breve: è lecito astenersi, ma è reato propagandare l’astensione.
Questa legge per anni è stata discussa, nel senso che ci si chiedeva se valesse solo per le elezioni o anche per i referenda.
Il dubbio è stato risolto con la legge n. 352 del 25 maggio 1970 “Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo”. Questa legge dice nell’articolo 51: “Le disposizioni penali, contenute nel Titolo VII del testo unico delle leggi per la elezione della camera dei deputati, si applicano anche con riferimento alle disposizioni della presente legge”.
In breve: anche sui referenda è lecito astenersi, ma è reato propagandare l’astensione.

Riassumendo il tutto: chi non si è recato a votare per scelta ha dimostrato di essere un pessimo cristiano e un pessimo cittadino, e chi lo ha indotto a non votare ha addirittura commesso reato.

Del resto il voto concedeva a tutti ogni possibilità di difendere le proprie idee:
1) Contrario alla legge? Voti sì.
2) Favorevole alla legge? Voti no.
3) Indeciso oppure convinto che debba decidere il Parlamento e non il popolo? Voti scheda bianca.

Insomma: alla fine non ha vinto l’una o l’altra posizione politica oppure la chiesa. Hanno vinto Ponzio Pilato e Don Abbondio, la vigliaccheria e il rifiuto di prendersi le proprie responsabilità.

17.9.06

L’ultima vittoria di Wojtyla

Ho appena scritto nel mio altro blog (Pensieri eretici) a proposito del caos provocato dal discorso tenuto da Benedetto XVI a Ratisbona.

Colgo quindi l'occasione per riportare qui quanto scrissi in occasione della sua elezione per il terzo numero del 2005 di Rinascita Flash.

Buona lettura,

Mauro.

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L’ultima vittoria di Wojtyla

Ce l’ha fatta… nonostante che volesse far credere di non essere interessato al soglio pontificio, Jospeh Ratzinger è riuscito a diventare papa.

Cosa ci aspetta ora? Quali conseguenze avrà questa scelta sul futuro della Chiesa, in senso religioso e politico?

Per prima cosa possiamo affermare, senza tema di smentita, che nononostante il modo molto diverso di presentarsi al mondo (dalla rockstar Wojtyla si passa all’eminenza grigia Ratzinger) la scelta del Conclave è nel solco della continuità.
La Chiesa non ha voluto rinnovarsi, ha confermato la chiusura alla modernità, al dialogo con la critica, con l’eterodossia.
Ha confermato il “diritto divino” contro l’essere umano.

Certo, ci si può sempre sbagliare, e non sarebbe la prima volta che un Papa, da Papa smentisca in positivo o in negativo quanto fatto da cardinale.
Però le premesse non lasciano presagire nulla di buono… a partire dal fatto che Ratzinger è Prefetto per la Congregazione per la dottrina della fede, più comunemente nota come Sant’Uffizio. Cioè l’ufficio vaticano che oggi si preoccupa di difendere l’ortodossia più rigida contro gli “assalti” del modernismo… e in passato si occupava di mettere all’indice i libri proibiti.

Sospendiamo quindi il giudizio su Ratzinger fino a quando non vedremo i suoi primi atti da Papa, però teniamo gli occhi aperti e non dimentichiamo che è stato il braccio armato di Wojtyla contro la Teologia della Liberazione, contro l’omosessualità, contro il sacerdozio femminile, contro il matrimonio dei preti, contro un effettivo riconoscimento delle Chiese protestanti.

Del resto cosa aspettarsi da un Papa che è stato professore universitario non di teologia, ma di dogmatica (e, come disse Claudio Magris, le parole sono fatti, non dimentichiamolo)?

Wojtyla dopo morto sembra aver ottenuto la sua più grande vittoria.
Speriamo che Ratzinger in un moto d’orgoglio sappia liberarsi dalle catene dogmatico-wojtylane che finora ha con apparente piacere sopportato.

A suo merito, e a nostra speranza, bisogna dire che Ratzinger è alieno dal culto della personalità. Speriamo che basi il suo papato su queste fondamenta e non sul suo integralismo rigido, vicino all’Opus Dei.

Rieccomi

Dopo quasi un mese di assenza per vacanze (spero meritate) e impegni vari, rieccomi qui.

Non vi siete liberati di me :-)

Saluti,

Mauro.

12.8.06

Una speranza per la sinistra?

E ora parliamo un po' di politica.

Premetto subito: io sono una persona di sinistra, quindi sono di parte. Però occuparsi di politica significa saper ascoltare, saper leggere e capire (attenti: capire non significa approvare, come spesso ci viene fatto credere) anche le tesi, i programmi della parte opposta. Se no, non si fa politica, ma populismo.

Il problema grosso però in questo momento sta non in noi poveri diavoli che ci occupiamo di politica, ma nella politica "professionista". In questo momento non vedo purtroppo programmi concreti da discutere, da approvare o da condannare. E non li vedo ne' a destra, ne' a sinistra, ne' tanto meno al centro.

Io vivo in Germania e quindi nel quotidiano sono più coinvolto nei fatti tedeschi, che in quelli italiani.
Nella primavera del 2005, dopo aver letto alcuni libri decisamente interessanti, scrissi per Rinascita Flash un articolo su un possibile programma per la sinistra in Germania (e in senso lato in Europa). Ve lo propongo perché alcune tesi di fondo sono tranquillamente valide anche per l'Italia (e magari prossimamente scriverò qualcosa di direttamente riferito all'Italia, prendendo spunto da alcuni interessanti libri di Bocca, Salvi e Giavazzi che ho letto di recente).

Buona lettura,

Mauro.

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Una speranza per la sinistra?

È crisi. Crisi politica, ideologica, elettorale per la sinistra. Crisi spesso personale per le persone che nella sinistra hanno creduto. E credono. E soprattutto per coloro che della sinistra e delle speranze che porta (o dovrebbe portare) hanno bisogno.

Cosa succede? Dove va la sinistra?

Tony Blair si sposta a destra e trasforma il partito laburista in una copia “telegenica” dei conservatori.
Gerhard Schröder si definisce rappresentante della “neue Mitte” e ascolta più gli industriali dei sindacati.
Piero Fassino rivaluta Craxi e si deve (o vuole?) appoggiare agli ex democristiani per battere (forse) Berlusconi.

E allora? Dove rimane e dove va la sinistra?

Questa sinistra non va da nessuna parte. Si è infilata in un vicolo cieco che può solo significare il trionfo della destra. O di una destra che usa nomi di sinistra.
Quali possono essere le ricette per cambiare la strada, per dare speranza a chi viene sempre più messo ai margini della società, sia civile che economica?

Negli ultimi tempi sono stati pubblicati qui in Germania vari libri che, di fatto, contengono non una speranza, ma un programma per la sinistra. Un programma pragmatico, realizzabile, concreto e “di sinistra”.
Libri che probabilmente Schröder e Müntefering (nonostante le sue populistiche uscite nel tentativo di ribaltare il trend per le elezioni nel Nordrhein-Westfalen) non hanno letto e non hanno nessun’intenzione di leggere. O, nella migliore delle ipotesi, non hanno capito.

È interessante partire da quanto scritto da un giornalista, non da un economista o un politico. Un giornalista non conservatore, ma non certo tacciabile di comunismo. Stiamo parlando del caporedattore degli interni della Süddeutsche Zeitung, Heribert Prantl, che nel suo ultimo libro (“Kein schöner Land”, Droemer, marzo 2005) fa un’analisi spietata della distruzione dello stato sociale con tutto ciò che comporta (e il sottotitolo è significativo: “Die Zerstörung der sozialen Gerechtigkeit“ – con accento sul fatto che “stato sociale”, di fatto, significa “giustizia sociale”).
Nel libro Prantl dimostra senza possibilità di smentita che la nuova legislazione in materia, le cosiddette riforme, sono una strada verso la povertà. Non solo per le singole persone, per le fasce più deboli, ma per lo stato tutto e in ultima analisi anche per il mondo economico. E soprattutto come questa strada può portare rischi alla pace sociale, non solo ai portafogli. Perché con i partiti popolari che si allontano dal popolo si libera spazio per il populismo. E NPD e DVÜ entrano nei parlamenti regionali.
Prantl non fornisce esplicitamente ricette per risolvere il problema, ma chi è capace di capire quanto legge e non si ferma alla lettera non può che concludere, grazie all’analisi concreta (non politica) presentata nel libro, che la strada per uscire dalla crisi è un ritorno allo stato sociale. Forse non così massiccio come negli anni ’70, ma di sicuro non quello prospettato dal “confindustriale” Schröder.

Prantl non è stato però il primo a mettere il dito nella piaga delle riforme. Qualche mese prima Albrecht Müller, economista SPD ed ex consigliere di Willy Brandt, aveva dato alle stampe un’analisi degli errori, non solo politici ma anche logici, e delle bugie che stanno dietro alle riforme (“Die Reformlüge”, Droemer, agosto 2004).
Müller elenca 40 di questi errori - divisi tra errori logici, bugie, promesse vuote – che stanno falsando il dibattito sulle riforme. Bugie ed errori che, guarda caso, portano tutti nella direzione voluta dall’industria e, soprattutto, dalla finanza. Riforme che sono solo un trionfo del cosiddetto libero mercato. Libero però non da ingerenze politiche od ostacoli statalisti, bensì da regole e doveri. Cioè selvaggio, non libero.
Müller non scrive da politico ma da economista, citando dati, numeri e mostrando tabelle. E soprattutto scrive in maniera semplice, riuscendo a farsi capire da tutti. Da tutti quelli cha hanno la voglia di capire. Alcuni argomenti presentati nel libro possono essere scomodi e forse antipatici, alcuni (molto pochi per la verità) dei 40 “errori” possono essere forse anche interpretati in maniera diversa, opposta. Ma nonostante tutto rimane una lettura utile.
Io direi necessaria.

Alle accuse, rivolte da alcuni cosiddetti “media moderati” ai due autori di cui sopra, di essersi appiattiti sulle posizioni del “traditore” Oskar Lafontaine (traditore di cosa? L’idea SPD è stata tradita da Schröder, che, di fatto, ha cacciato Lafontaine dal partito), rispondo parlando proprio del suo ultimo libro (“Politik für alle”, Econ, aprile 2005).
Questo testo fornisce per così dire un retroterra politico a quanto abbiamo visto nei libri di Prantl e Müller.
Il tema di base è sempre quello dell’ingiustizia sociale. Oltre alle conseguenze economiche della strada intrapresa dal governo, Lafontaine vede chiaramente anche il pericolo del definitivo allontanamento della politica dalla gente. Politica “per tutti” non solo nel senso che compito dello stato è quello di occuparsi di tutti i suoi cittadini (e non solo dei ricchi), ma anche nel senso che è compito dei partiti porsi in maniera tale da spingere la gente comune a occuparsi di politica, magari non in maniera attiva, ma almeno informandosi e seguendone gli sviluppi. E ciò si ottiene occupandosi delle cose concrete che riguardano la vita di tutti i giorni.
Il grosso timore di Lafontaine è una smobilitazione della democrazia, con la politica che va in direzione oligarchica e la gente comune in balia del populismo.

A una domanda però questi libri non danno risposta, almeno non esplicita.
Perché il liberismo trionfa se giova solo a pochi? La risposta banale, secondo cui trionfa perché questi “pochi” hanno il potere, non basta.
Una risposta la troviamo nell’ultimo lavoro del giornalista svizzero Jean Ziegler (“Die neuen Herrscher der Welt und ihre globalen Widersacher“, Goldmann, gennaio 2005).
Il libro non si occupa della situazione tedesca ne’ del futuro della sinistra, si occupa dei problemi della globalizzazione, però una delle tesi esposte in apertura risponde a mio parere benissimo alla domanda sul perché del trionfo del liberismo.
La finanza e in buona parte anche la politica non sono mai state sociali, l’obiettivo di un industriale o finanziere è sempre stato il massimo arricchimento personale, senza preoccupazione per le persone (dipendenti, clienti o concorrenti che siano). La divisione in blocchi, con il mondo comunista sovietico giusto fuori della porta, faceva però paura. Le elite destrorse dell’occidente temevano che i soviet potessero diventare un esempio per gli operai, i contadini, gli impiegati in Europa e Nord America, e quindi si è “inventato” lo stato sociale per tenerli buoni, per dimostrare che il sistema occidentale fosse il migliore anche per loro, non solo per i potenti.
Con la caduta del muro di Berlino e la fine del blocco sovietico questa paura è finita. Non c’era più nessun sistema alternativo a cui le classi medio-basse potessero guardare, quindi sono cominciate a cadere le maschere.
Chi teneva le redini ha potuto riprendere in mano anche la frusta.

Tornando alla sinistra, bisogna comunque pragmaticamente osservare che, per essere credibili, serve anche una politica estera, non solo una politica socio-economica.
Ha la sinistra una politica estera? Forse, ma di sicuro non una politica lungimirante. Si affrontano le varie situazioni di volta in volta, quando si presentano. Nessun partito di sinistra (vera o presunta) ha un programma concreto (tranne Tony Blair, il cui programma si può riassumere nella frase “Bush ha sempre ragione”).
Una bella analisi (se non una soluzione) ce la offre il sempre lucido ex cancelliere Helmut Schmidt nel suo ultimo libro (“Die Mächte der Zukunft”, Siedler, settembre 2004). Schmidt non parla esplicitamente di politica estera della sinistra, si occupa (apparentemente) della politica dell’Europa, al di là del colore dei governi che la guidano, ma è chiaro a chiunque che sta parlando in primis ai suoi eredi nella SPD e in seconda battuta agli altri partiti socialdemocratici europei.
Schmidt non si nasconde le difficoltà concrete dell’Europa, non nega neanche che alcune difficoltà siano indipendenti dalla volontà e dalla debolezza europea, ma indica una strada. Intanto una maggiore integrazione politica, non solo economica, in maniera da poter essere un serio contraltare (e si sottolinei contraltare, non nemico) degli Stati Uniti. E poi il riuscire ad allargare lo sguardo. Smetterla di limitarsi a guardare, come nemici o come amici poco importa, solo agli USA. Non nascondersi l’ascesa anche politica di paesi come la Cina. E capire che il problema demografico del terzo mondo è anche politico, non solo sociale.
Non si ferma qui Schmidt. Ma questo può già essere una buona base per una politica estera della sinistra.

Una speranza per la sinistra? La sinistra ha bisogno di un programma, non tanto di speranze. Un programma che abbia vista lunga, magari che la faccia passare anche attraverso una sana catarsi.
Questi libri possono fornire idee per costruirlo. Basta solo che si abbia il coraggio di pensare non solo alle prossime elezioni, ma che si torni a fare politica. Con la “P” maiuscola.